Potete ascoltare qui l’intervista a Caterina Arciprete sul commissariamento della Federazione toscana a Controradio.
Con le dimissioni in blocco di tutti i componenti eletti della Federazione dei Verdi di Firenze si chiudono due anni di lavoro nel quale gli ecologisti fiorentini hanno tentato di rilanciare il movimento verde a Firenze.
Gli esecutivi della Federazione provinciale dei Verdi di Firenze e dell’Associazione comunale dei Verdi di Firenze si sono riuniti il 5 Marzo 2020 congiuntamente in un’assemblea aperta a tutti gli iscritti alla quale hanno avuto il piacere di avere ospiti anche alcuni iscritti di Pistoia e di Arezzo.
L’assemblea ha ritenuto, all’unanimità degli intervenuti, un grave errore politico e un atto in violazione delle norme statutarie il commissariamento della Federazione regionale dei Verdi della Toscana disposto dall’Esecutivo nazionale il tre Marzo 2020.
A partire da luglio la dirigenza regionale aveva lavorato alla costruzione di una lista per le prossime elezioni regionali toscane. La scelta era stata discussa in quattro assemblee di tutti gli iscritti, quattro momenti di partecipazione autentica nei quali si è progressivamente delineata la scelta di una lista congiunta con alcune forze di sinistra e civiche all’interno della coalizione del centro sinistra.
L’Esecutivo nazionale ha però deciso che questa scelta dell’assemblea non fosse accettabile. Non potendo intervenire sulla decisione politicamente perché lo statuto federale dei Verdi garantisce autonomia alle regioni, ha provveduto ad azzerare tutti gli organi eletti e a nominare Francesco Alemanni commissario straordinario.
Gli esecutivi comunale e provinciale di Firenze considerano questa modalità di azione politica miope e distruttiva e richiedono che il commissario nominato venga al più presto a Firenze per un incontro aperto a tutti gli iscritti toscani.
Gli intervenuti hanno dichiarato di voler rimanere, per il momento, regolarmente iscritti alla Federazione, e di voler fare tutto il possibile per difendere e valorizzare l’importante lavoro politico ecologista degli ultimi due anni nella città e nell’area metropolitana.
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A seguito dell’incontro hanno deciso di dare le loro dimissioni tutti i componenti delle dirigenze della Federazione provinciale e dell’Associazione comunale di Firenze:
Paolo Brunori, co-portavoce della Federazione provinciale di Firenze
Alessandra Petrioli, co-portavoce della Federazione provinciale di Firenze
Cecilia Armellini, membro dell’esecutivo provinciale
Giacomo Bianchi, membro dell’esecutivo provinciale
Marta Brenna Ghedina, membro dell’esecutivo provinciale
Damiano Ghiozzi, membro dell’esecutivo povinciale
Elena Torta, membro dell’esecutivo provinciale
Caterina Arciprete, co-portavoce dell’Associazione comunale di Firenze
Giovanni Graziani, co-portavoce dell’Associazione comunale di Firenze
Samuele Becattini, membro dell’esecutivo comunale
Matteo Scatarzi, membro dell’esecutivo comunale
Elena Torta, membro dell’esecutivo comunale
Hanno deciso inoltre di rimettere il loro mandato tutti i consiglieri federali nazionali eletti dalla Federazione toscana: Cecilia Armellini, Paolo Brunori e Alessandra Petrioli.
Marta Brenna Ghedina e Andrés Lasso, che avrebbero diritto di subentrare nel Consilgio federale nazionale come sostituti, hanno dichiarato che non intendono essere nominati consiglieri.
Il sito www.dueanniverdiafirenze.it, per il momento rimane a testimonianza dei due anni di vita della Federazione fiorentina, in attesa che il gruppo di persone che è titolare del dominio e ne ha curato i contenuti decida cosa farne.
I Verdi di Firenze desiderano ringraziare tutti quelli che in questi due anni li hanno incoraggiati ed aiutati e sperano di poter tornare presto a lavorare per l’obiettivo prioritario di costruire un partito ecologista credibile, come il nostro paese meriterebbe.
Un sguardo sulla crescita della collassologia in Francia scritto per noi da David Clément.
Il movimento e corrente di pensiero chiamata “collapsologie” (“collassologia” in italiano) sta guadagnando visibilità in Francia, in un contesto internazionale di maggiore consapevolezza dei problemi legati ai cambiamenti climatici. Questo termine, che deriva da “collapse” inglese (collasso), può risultare spaventoso poiché associato all’idea di un futuro terribile per gli uomini. Ma la corrente di pensiero collassologico, almeno nella sua versione più diffusa, non cade in un catastrofismo amorfo, senza rimedio. Al contrario, cerca di mettere in evidenza linee di riflessione e di azione per consentirci di affrontare i drastici cambiamenti prevedibili per un prossimo futuro, verso i quali siamo certamente già avviati.
Il termine collassologia evoca ovviamente i pericoli che l’umanità dovrà affrontare: i cambiamenti climatici, l’esaurimento delle risorse e delle materie prime, le modifiche dei cicli della biosfera da parte delle attività umane – ciclo di carbonio, acqua, fosforo – , difficoltà di trasporto, … Sviluppi che porterebbero a un drastico cambiamento negli equilibri che governano le nostre società e il nostro pianeta oggi, vale a dire niente meno che lo stravolgimento del mondo nel quale viviamo. Va inoltre sottolineato che le analisi condotte da questa corrente di riflessione sulla situazione esistente assumono un approccio scientifico, che si basa su studi esistenti e su una comunità di scienziati che partecipano al movimento. Il movimento condivide gli studi dell’IPCC (International Panel on Climate Change) sul clima o quelli relativi alla decrescita. Figure di spicco come l’agronomo Pablo Servigne o l’esperto in resilienza dei sistemi socio-ecologici Raphaël Stevens fanno parte della corrente di pensiero francese della collassologia.
I collassologi condividono quindi, con un numero crescente di persone, analisi scientifiche sul clima, sulle risorse naturali e sull’impatto delle attività umane. Per questo movimento, tuttavia, non si tratta solo di elaborare un’osservazione sui vari aspetti che abbiamo appena menzionato, limitandosi a rappresentare un futuro catastrofico sotto diversi aspetti. Da un lato, viene proposta una riflessione globale sul funzionamento delle nostre società, del nostro pianeta e delle loro varie interazioni, sotto forma di analisi di sistemi complessi. D’altra parte, i collassologi desiderano costruire oggi le basi, sotto forma di resilienza, che ci permetterebbero di continuare a vivere serenamente dopo il crollo.
Se è vero che i collassologi condividono analisi scientifiche sull’evoluzione del clima e della biosfera e sulle conseguenze dell’attività umana su di esse, è altrettanto vero che essi orientano anche la riflessione verso terreni meno scientificamente stabili, quelli di sistemi complessi. Si tratta cioè di descrivere l’insieme dei legami di dipendenza delle società umane e della Terra, al fine di comprendere i meccanismi alla base di queste interconnessioni. Ad esempio, per descrivere il tipo di collasso che dovremmo affrontare, viene proposto un confronto con le transizioni di fase descritte dalla fisica dei media complessi: in un sistema composto da pochi attori e poche connessioni, il deterioramento di alcune connessioni porta immediatamente all’avvio di una lenta evoluzione dell’intero sistema; al contrario, in un sistema complesso, fatto di molte interconnessioni, come il nostro, il deterioramento sarà inizialmente compensato dal sistemo stesso per mantenersi nel suo stato globale, fino a quando non si verificherà un cambiamento improvviso, quando le compensazioni diventeranno impossibili. È questo secondo scenario che è previsto dai collassologi per il nostro futuro. È uno scenario che viene anche da loro usato per spiegare perché non abbiamo ancora sperimentato una trasformazione profonda dovuta al fatto che per diversi decenni abbiamo consumato più risorse di quante ne possa produrre la Terra (il verificarsi regolare di fenomeni climatici estremi o la volatilità nei mercati finanziari delle materie prime negli ultimi anni potrebbe minare questa osservazione). La conseguenza di questo secondo scenario sarebbe un brutale cambiamento, nel corso di un arco temporale ridotto, del nostro ambiente. Queste previsioni di un rapido collasso non hanno solide basi scientifiche e sono più che altro ipotetiche. Tuttavia, riflettere sul ruolo e l’importanza delle diverse connessioni del complesso sistema umano-Terra potrebbe generare nuove idee e indirizzare azioni future.
Per i collapsologi, non c’è dubbio che prima o poi raggiungeremo la fine del mondo in cui viviamo. L’Antropocene come lo conosciamo oggi non può essere sostenibile. In questo, il movimento afferma una constatazione che va al di là di quelle proposte da altre correnti di pensiero a partire da osservazioni simili sullo stato del nostro pianeta. Ad esempio, la collassologia si spinge più lontano rispetto a molti movimenti ecologisti, considerando che nessuna energia alternativa (rinnovabile o di altro tipo) è in grado di fornire energia a basso costo e concentrata come i combustibili fossili, e che sarà quindi necessario riprogettare e riconfigurare la maggior parte delle nostre infrastrutture (trasporti, elettricità, edifici, sistemi alimentari) che sono state tutte progettate in relazione alle caratteristiche del petrolio, del gas naturale e del carbone (vedi nucleare, come in Francia).
Va notato che questi punti sono stati oggetto di molte riflessioni da parte delle correnti che sostengono la decrescita e di cui si nutre la collassologia. In effetti, possiamo notare che un’istituzione come il Institut Momentum (www.institutmomentum.org) che promuove la collassologia in Francia proviene dal movimento ecologista e per la decrescita. Il suo presidente non è altro che Yves Cochet, ex deputato europeo ed ex ministro dell’Ambiente, e vicino a teorici della descrescita come Serge Latouche.
Una delle forti caratteristiche del movimento della collasologia è la promozione di un atteggiamento consapevole e attivo nei confronti dei rischi identificati e la necessità di un cambiamento radicale nell’organizzazione delle nostre società. Cercando di andare oltre l’osservazione del futuro collasso precedentemente introdotto, il tema dello sviluppo della resilienza è un obiettivo centrale del movimento. È promosso in modo positivo e creativo, con un ruolo fondamentale attribuito all’immaginazione: il mondo post-collasso è interamente da inventare! Questo atteggiamento si riflette sia nelle parole d’ordine che nei titoli delle riviste (“Crollo e rinnovo” è quello della rivista Yggdrasil). Nell’ideologia del collassologo, l’utopia ha cambiato orizzonte : è utopico credere che tutto possa continuare come prima. Al contrario, il collasso sarebbe l’inizio di un futuro da costruire.
Al fine di anticipare il collasso futuro, la collassologia invita a organizzarsi ora. Pertanto, possiamo citare la promozione del ripristino degli ecosistemi, l’istituzione di nuovi sistemi alimentari, l’uso del territorio, la permacultura rurale e urbana, lo sviluppo delle energie rinnovabili e l’autonomia energetica, l’economia cooperativa, i vari tipi di resilienza, la solidarietà pratica, nuove forme di democrazia. Ancora una volta, molte di queste proposizioni non sono specifiche di questo movimento, che tuttavia propone con forza lo sviluppo della resilienza a livello locale.
Alla base di questo atteggiamento c’è una doppia osservazione: da un lato, le decisioni globali (europee e internazionali) sembrano politicamente impossibili; dall’altro lato le questioni legate al cambiamento climatico dipendono dalla posizione geografica considerata (tra le montagne e il bordo degli oceani per esempio). Se è difficile non condividere questa doppia osservazione, suscita qualche perplessità la volontà di alcuni collassologi di sviluppare comunità regionali, sviluppando la resilienza adeguata al loro territorio e alla loro storia, in contrapposizione a quelle delle regioni confinanti. L’idea di un certo ripiegamento all’interno di una comunità regionale puo` essere discussa da un punto di vista sociale. Evitando queste derive, è comunque stimolante interrogarsi sulla rilevanza del livello locale per costruire un’alternativa al mondo attuale e sul networking a livello globale esistente fra queste resilienze locali.
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Foto di copertina: yggdrasil-mag.com
Di Costanza Loni, Federazione dei Verdi di Firenze – Europa Verde
La morte di Nicolò Bizzari poche ore dopo una caduta in Piazza Brunelleschi porta all’attenzione di tutti ciò che tutte le persone con disabilità conoscono bene: le condizioni indecenti dei marciapiedi e della pavimentazione delle strade e delle piazze di Firenze.
Da tempo le associazioni di categoria delle persone con disabilità denunciano questa situazione e ciò che hanno sempre affermato si dimostra oggi tragicamente vero. Questa situazione rappresenta un rischio per l’incolumità delle persone che si muovono con difficoltà o con ausili tipo carrozzine manuali ed elettriche. Le richieste di porre fine a questo stato di cose sono sempre state inascoltate e snobbate ed è terribile che si debba risollevare questo problema di fronte a una tragedia.
Bisogna prevenire e non attendere incidenti per accettare che le persone con disabilità avevano ragione. Inoltre lo stesso rischio vale per le persone anziane che al giorno d’oggi rappresentano quasi il 25% della popolazione. Per non parlare delle persone che non hanno particolari difficoltà fisiche e nonostante tutto sono vittime anche loro di traumi dovuti a pavimentazione disconnesse e buche non chiuse.
Senza avere gli elementi per poter giudicare il caso specifico, e non volendo in alcun modo mettere in dubbio la professionalità del personale dell’Ospedale di Santa Maria Nuova, occorre ricordare che da tempo le associazioni hanno sollevato il problema che le persone con disabilità non ricevono adeguate cure da assistenza e non hanno pari accesso ai servizi sanitari come tutti gli altri cittadini, compresi i pronto soccorsi, dove capita che il personale non sia adeguatamente preparato ad affrontare l’assistenza a persone con gravi disabilità. La Regione Toscana ha attivato un progetto a riguardo che però fatica a decollare.
Comunque è vergognoso che nel 2020 si legga nello stesso articolo che per la caparbietà del giovane disabile nella Facoltà di Lettere si stesse facendo molto per abbattere le barriere architettoniche. Anche semplicemente ammetterlo dovrebbe rappresentare una vergogna dato che le barriere architettoniche non ci dovrebbero essere per legge ed inoltre non dovrebbe servire “la caparbietà” di uno studente con disabilità per abbatterle, ma dovrebbe essere fatto come routine ordinaria di messa a norma degli edifici universitari. Ma la mentalità odierna è tale che non ci si imbarazza di fare pubblicamente tale affermazioni.
Altra vergogna è che al momento di transennare la zona di selciato dove si trovava la buca sequestrata dalla magistratura, si è scoperto che era stata velocemente asfaltata in poche ore, dimostrando che quando si vuole si può e che le colpe sono talmente evidenti che si cerca velocemente di coprirle, anche in senso figurativo.
Questa tragica vicenda ha sollevato il velo su situazioni che accettiamo passivamente da troppo tempo: la prima che non sono riconosciuti e rispettati i diritti delle persone con disabilità, sanciti anche dalla Convezione ONU, ratificata dallo Stato Italiano e la seconda che il centro della città di Firenze, patrimonio dell’UNESCO, versa in condizioni pietose e pericolose per TUTTI I CITTADINI in particolare i più deboli.
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La foto di copertina è di Richard Masoner
Un ponte di cui si potrebbe fare a meno, le alberature da preservare e soprattutto l’assurda – ed evitabile – rottura di carico in piazza della Libertà. Le osservazioni dei Verdi – Europa Verde Firenze sulla nuova tramvia per Bagno a Ripoli.
La nuova linea 3.2.1 prevede il capolinea fiorentino in piazza della Libertà, da qui un percorso di 7,4 km interesserà i viali di Circonvallazione, i quartieri di Bellariva e Gavinana, viale Europa fino ad arrivare a Bagno a Ripoli dove sarà realizzato anche un nuovo parcheggio scambiatore e un area per il deposito dei convogli.
Come abbiamo più volte espresso, sia durante la campagna elettorale per le amministrative dello scorso anno, che nei nostri interventi e approfondimenti sul tema (come in questa intervista all’esperto Ing. Mantovani: https://www.dueanniverdiafirenze.it/federazione/2019/11/03/futuro-e-criticita-del-sistema-tramviario-fiorentino-otto-domande-a-giovanni-mantovani/), siamo favorevoli allo sviluppo del sistema tramviario fiorentino, come componente chiave per un sistema di trasporto pubblico efficiente a livello metropolitano e locale.
Allo stesso tempo, consideriamo fondamentali due aspetti:
L’analisi del progetto definitivo presentato dal Comune di Firenze, di cui è attualmente in corso la procedura di verifica di assoggettabilità a V.I.A., ha lasciato in noi forti perplessità che abbiamo tradotto in osservazioni presentate formalmente agli uffici comunali assieme a proposte di varianti migliorative.
La prima questione che poniamo è proprio l’efficienza del sistema nel suo insieme. L’inevitabile disagio che aspetta i fiorentini durante la fase dei lavori, in particolare lungo i Viali di Circonvallazione, dovrà essere ripagato da un sistema integrato che permetta di spostarsi in modo efficiente e rapido tra le diverse zone della città. Rinunciando al passaggio dal centro storico e realizzando il capolinea della nuova linea per Bagno a Ripoli in Piazza della Libertà, si crea un punto di rottura importante che, di fatto, renderà il viaggio dalla zona sud-est di Firenze al nodo della Stazione SMN peggiore che con il sistema attuale.
Se pensiamo che la nuova linea 3.2.1 per Bagno a Ripoli, già dal nome, sia legata all’idea di essere una diramazione della linea 3 per Careggi, non avrebbe più senso far terminare questa alla Fortezza invece che in piazza della Libertà? I binari di questa potenziale deviazione sono tra l’altro già presenti in viale Strozzi.
Sarebbe così possibile creare un sistema integrato in cui poter collegare tra loro ogni capolinea, come illustrato nello schema seguente.
In tal modo, in esercizio si potrebbero avere:
Questa soluzione può essere ottenuta modificando l’intenzione di terminare la linea 3.2.1 in piazza della Libertà, andando a creare un sistema che collegherebbe tra loro 4 zone periferiche con un considerevole disincentivo all’uso dell’auto privata. Oltretutto, questa soluzione, potrebbe essere anche alternativa all’ipotesi di prolungamento della T2 con la variante Vacs (Alternativa al Centro Storico) verso piazza S. Marco.
Entrando nel merito delle scelte progettuali della nuova linea verso Bagno a Ripoli, riteniamo che la costruzione di un nuovo ponte, tra Bellariva e Gavinana, sia da evitare. Pensiamo che sia paradossale, per la realizzazione di un’infrastruttura di trasporto che dovrebbe mirare a ridurre il traffico veicolare privato a favore dell’utilizzo del mezzo pubblico, passare dalle attuali quattro corsie destinate alle auto presenti sul ponte da Verrazzano a sei corsie in totale (due sul vecchio e quattro sul nuovo ponte), incentivando di fatto il traffico privato.
Meglio sarebbe riprendere in considerazione la prima delle quattro ipotesi progettuali presentate dal Comune alla cittadinanza a ottobre 2018, in cui la linea tramviaria, dopo aver attraversato il Ponte da Verrazzano e raggiunto piazza Ravenna, si biforca in piazza Gavinana con un ramo su viale Giannotti e l’altro su via Giovanni delle Bande Nere, piazza Gualfredotto, via Datini, via Federico di Antiochia, largo Novello. In viale Europa, alla rotonda con largo Novello, i due rami si ricongiungono.
Con questa soluzione, avendo un binario singolo sul primo tratto di viale Giannotti, è possibile mantenere corsie per il traffico veicolare in entrambe le direzioni anche all’altezza del tratto tra piazza Gavinana e il circolo Vie Nuove, che sarebbe altrimenti un nodo critico.
Il diverso percorso dei binari per una tratta limitata è una soluzione già adottata con successo nel caso della linea 3 tra piazza Dalmazia e piazza Leopoldo. Inoltre, un ramo in direzione centro che passa da via Datini anziché da viale Europa permetterebbe di servire meglio gli abitanti del quartiere, che si sviluppa più nella sua parte vicina a via Villamagna rispetto alla parte verso via di Ripoli.
Chiudiamo con due osservazioni in merito alla salvaguardia del patrimonio alberato e alle scelte di mantenimento del verde, per un’opera che ha tra gli obiettivi quello di ridurre l’impatto sull’ambiente dei nostri stili di vita.
La nuova linea, che dovrebbe essere costruita a partire da fine 2020, interessa diversi viali alberati alcuni facenti parte di zone con vincolo storico-paesaggistico quali i viali del Poggi. È previsto quindi un piano di sostituzione di circa 480 piante ma non vi è nessuna attenzione particolare agli alberi monumentali che, secondo la legge 10/2013 sul verde urbano, dovrebbero essere valutati secondo criteri specifici, mai definiti dal nostro Comune. Potrebbe essere questa una buona occasione per farlo? Noi abbiamo fatto una proposta nelle nostre osservazioni che sono consultabili qui.
Infine, la proposta della nuova Piazza Beccaria è affascinante, con l’obiettivo di fondo di dare maggiore importanza e risalto a Porta la Croce, riprendendo le progettualità di Giuseppe Poggi. Ma, con la nuova pavimentazione, si andrebbe a creare un’unica superficie impermeabile in pietra e asfalto, eliminando le attuali aree a verde.
Pensiamo che queste potrebbero essere facilmente essere reinserite nelle varie fasce concentriche oggi ipotizzate, intervallando quelle di pavimentazione. Questo potrebbe produrre importanti vantaggi come:
Vi proponiamo alcuni spunti dal rapporto Nevediversa 2019 di Legambiente che discute la sostenibilità degli sport invernali in Italia e parla anche del progetto di nuovo impianto sull’Appennino Tosco-Emiliano alla Doganaccia.
In un pianeta in balia dei cambiamenti climatici e dal conto alla rovescia per la propria sopravvivenza, anche l’abitudine alla montagna innevata deve fermarsi a riflettere per capire come adeguarsi e ripensarsi.
E’ necessario iniziare da adesso a progettare un futuro per le nostre montagne. In pochi sanno infatti che il cambiamento climatico risulta più rapido nelle zone montuose rispetto a quelle pianeggianti: ogni grado centigrado in più registrato nelle terre emerse corrisponde a un +2° sulle Alpi.
Secondo i ricercatori dell’Institute for Snow and Avalanche Research (SLF) e del CRYOS Laboratory dell’École Polytechnique Fédérale se i paesi non riusciranno a ridurre le emissioni, alla fine del secolo la neve sotto i 1000 metri sarà una rarità, inoltre la stagione per gli sport invernali si accorcerà di 15-30 giorni. Le stazioni sciistiche al di sotto dei 1.500 metri sono inesorabilmente condannate alla chiusura, e nei prossimi anni è difficile immaginare un futuro addirittura per quelle poste al di sotto dei 1.800 metri.
La prima risposta che verrebbe in mente è che basti pescare la soluzione tecnologica più appropriata per cercare di continuare a ignorare il rapido cambiamento climatico, ad esempio puntando tutto sui cannoni sparaneve e tentare di resistere, ma non sarebbe una scelta lungimirante: con la tecnologia convenzionale da un metro cubo d’acqua si producono circa due metri cubi di neve artificiale, a patto che la temperatura sia tra i -2 e i -12 gradi e con un tasso di umidità intorno al 20%. In tal caso è garantito l’innevamento artificiale che ha un costo indicativo per km di pista fino a 45.000 euro a stagione.
Alcune innovazioni tecnologiche rendono possibile produrre neve tra 0 e i +15 gradi. Una tecnologia che potrebbe avere applicazioni anche al di fuori delle piste da sci – per mantenere la catena del freddo nel settore alimentare, per esempio. La differenza di questa tecnologia rispetto ai cannoni è sostanziale, perché la neve è prodotta sottovuoto all’interno di una macchina e l’energia termica per la trasformazione può essere ricavata da fonti rinnovabili. E’ bastato questo per parlare di neve “green” e di sostenibilità ambientale. Si tratta di un’interpretazione distorta perché, ovviamente, non c’è nessuna invenzione tecnologica che permetta di conservare la neve artificiale a temperature sopra lo zero, e con il loro innalzamento un innevamento programmato sarebbe giustificabile solo oltre i 1800-2000 metri.
Alla luce di questi scenari è necessario influenzare le scelte programmatiche pensate per le montagne nei prossimi anni e condizionare i nuovi progetti perché recepiscano quanto sta succedendo a livello climatico. Sull’arco alpino i progetti di nuovi impianti sciistici più impattanti sull’ambiente e anacronistici, secondo il Dossier di Legambiente, sono il Collegamento Cime Bianche (Progetto di ampliamento dell’area sciistica nell’Alpe Devero), il Progetto Ortler Ronda (carosello nell’area sciistica di Solda nel Parco dello Stelvio) e il Collegamento Padola (Sesto Pusteria).
Sul fronte appenninico in Toscana è invece previsto il progetto di collegare le stazioni sciistiche del Corno alle Scale con gli impianti della Doganaccia, prossimo alla realizzazione. Il finanziamento europeo di venti milioni è transitato dalla presidenza del Consiglio. A questi la Regione Emilia Romagna ha aggiunto l’intenzione di stanziare per quest’anno 11,7 milioni, mentre la Toscana si appresta a stanziarne 8. Il tutto per unire il Corno e la citata Doganaccia con una funivia che dal versante toscano condurrebbe direttamente al lago Scaffaiolo (costo 7 milioni). Su quello emiliano, una seggiovia partirebbe dall’attuale rifugio della Tavola del Cardinale raggiungendo il lago. Il protocollo è stato siglato nel 2016 dalle Regioni Emilia-Romagna e Toscana con la presidenza del Consiglio dei ministri.
Pochi mesi prima l’Arpa dell’Emilia Romagna aveva certificato che nei tre Comuni emiliani coinvolti le temperature medie si sono innalzate di oltre 1 grado, Legambiente Emilia-Romagna ha definito il progetto “accanimento terapeutico”, il rilancio del circo bianco appenninico certificato da questo progetto non è frutto di analisi economiche e ambientali, ma figlio di una visione cieca e a breve termine.
Da un punto di vista ambientale è prioritario contestualizzare le aree interessate dal progetto dell’impianto che ricadrebbe in gran parte nel SIC/ZPS (Sito di Importanza Comunitaria e Zona di Protezione Speciale) Monte Cimone, Libro Aperto, Lago di Pratignano: al suo interno è vietata la realizzazione di nuovi impianti di risalita a fune e di nuove piste da sci, ad eccezione di quelli previsti negli strumenti di pianificazione territoriale vigenti alla data di approvazione delle presenti misure per quanto concerne i SIC ed alla data del 7 novembre 2006 – DGR n. 1435/06 – per quanto riguarda le ZPS ed i SIC-ZPS, ed a condizione che sia conseguita la positiva valutazione di incidenza dei singoli progetti ovvero degli strumenti di pianificazione, generali e di settore, territoriale ed urbanistica di riferimento dell’intervento.
E allora quale futuro per questa parte dell’appennino una volta abbandonato il progetto di rilancio del turismo sciistico?
La locale sezione del Club Alpino Italiano ha evidenziato come l’82% delle presenze turistiche sull’Appennino riguardino il “turismo verde”, quello estivo. C’è un turismo di altro tipo – spiega anche Legambiente – quello verde, del trekking, frequentato da camminatori in ogni stagione, in inverno con le racchette da neve e da scialpinisti, e che chiede paesaggi curati e bellezza non deturpata da nuovi impianti di risalita, borghi preziosi, offerta di servizi turistici a misura d’uomo.
È prioritario valorizzare l’Appennino toscano con un tipo di turismo sostenibile connesso alla natura la cui rarità è sempre di più stimolo alla sua preziosa condivisione e integrità, mantenendo i percorsi storico-culturali e agroalimentari.
La campagna pubblicitaria lanciata a fine 2018 dalla Regione Piemonte: All you need is snow, “tutto ciò che serve è la neve” è simbolo di ciò che è stato sfruttato ma che da adesso deve cambiare, soprattutto sulle aree appenniniche a vocazione verde.
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Tutte le foto sono gentile concessione di Enrico Buonincontro
Presi dall’entusiasmo per l’elezione di Sanna Marin in Finlandia abbiamo intervistato Jouni Kantola, giornalista fiorentino-finlandese e co-amministratore di Berta Film, un’azienda produttrice e distributrice di film documentari e fiction.
Verdi Firenze: In Italia ci facciamo spesso prendere da ubriacature di entusiasmo esterofilo, Zapatero, Hollande, Tsipras, che effetto ti fa vedere oggi tanto entusiasmo sulla stampa italiana riguardo alla nuova premier del tuo paese?
Jouni Kantola: L’entusiasmo riguardo al governo Finlandese, una coalizione dove i cinque partiti della maggioranza sono tutti guidati da donne, quattro delle quali sotto i 35 anni di età, è stato un entusiasmo mondiale, penso che l’Italia non potesse mancare all’appello. È importante però capire e riconoscere che non si tratta di una messinscena populista: la parità di genere in Finlandia viene da lontano. Nel 1906, Finlandia fu il secondo paese nel mondo dopo l’Australia a introdurre il suffragio alle donne. La generazione detta ‘millenials’, di cui fanno parte le quattro donne che attualmente guidano i partiti del governo finlandese, è cresciuta con la Presidente Tarja Halonen, che fu la prima donna a ricoprire questa carica dal 2000 al 2012. La parità di genere in Finalndia è nei fatti. C’è un conenso diffuso in Finlandia sul fatto che che Sanna Marin e le sue colleghe ministre occupino le loro cariche politiche non perché sono donne, ma perché sono le persone più qualificate che la nazione ha a disposizione al momento.
VF: Vuoi raccontarci qualcosa di Sanna Marin? Come è arrivata così giovane a fare la premier?
Sanna Marin è qualificata, tosta e intelligente. Ha una laurea in scienze dell’amministrazione e ha militato nei giovani del Partito Socialdemocratico Finlandese. Nel 2012 è stata eletta nel Consiglio comunale di Tampere, la terza città Finlandese. Come presidentessa del Consiglio comunale di Tampere dimostra le sue capacità di dirigere gruppi politici, talvolta molto discordanti, arrivando a risultati concreti e comprensibili per i cittadini. Alcune di queste sedute del Consiglio comunale, trasmesse live via internet, diventano virali e aumentano la sua visibilità nazionale. Membro del parlamento finlandese dal 2015 e ministro dei trasporti e delle telecomunicazioni della Finlandia dal 2019, aveva già ricoperto il ruolo di primo ministro durante la malattia del ex-presidente Antti Rinne. Nella vita privata è sposata con un figlio; è cresciuta come figlia di una coppia gay, ovvero due mamme. Nella sua infanzia ha subito una povertà insolita nel contesto Finlandese e di conseguenza ha una particolare attenzione riguardo a questioni di povertà. Sulla mappa politica destra-sinistra, Sanna Martin è sulla sinistra anche all’interno del suo stesso partito dei Socialdemocratici.
VF: Cosa ti aspetti che possa fare Sanna Marin, al di là del potere simbolico del suo successo, per migliorare la situazione della Finlandia?
JK: Lei deve governare e garantire che il programma di governo sia realizzato, è questo il suo mestiere. La sfida è notevole, perché un pezzo fondamentale del suo governo, il Partito di Centro Finlandese, è in contrapposizione con gli altri elementi della coalizione sulle politiche ambientali e sul mercato di lavoro. Inoltre, eredita una difficile situazione nel mercato di lavoro dal governo precedente di centrodestra, dove la parte dei lavoratori ha dovuto affrontare molti sacrifici. Il programma di governo c’è però, ed è firmato da tutta la coalizione. Lei può essere la garante di questo programma, dovrà riuscire a fare in modo che i voti dei cittadini alle elezioni di Aprile 2019 si traducano in atti.
VF: La Finlandia ambisce a emissioni nette zero di C02 entro il 2035, credi che l’impegno del nuovo governo sui temi ecologisti sia credibile?
JK: La Finlandia può sfruttare dei sink biosferici importanti grazie al suo patrimonio forestale che lo favorisce nel tentativo di emissioni nette zero, però per arrivare a tale scopo entro 2035, dovremmo vedere cambiamenti radicali subito e su tutti i settori chiave della società: industria, logistica e produzione del riscaldamento ed energia elettrica. Il cambiamento non è stato avviato ancora e perciò le dichiarazioni del governo al giorno di oggi non sono credibili. Detto questo, le elezioni erano ad Aprile 2019 e il termine del governo scade Aprile 2023. Il saldo totale di questa ambizione va visto al termine del mandato, ma è certamente urgente che questo governo passi all’azione.
VF: Pensi che il ruolo della donna sia così diverso nella società finlandese rispetto a quella Italiana? oltre a motivi culturali credi che ci sia qualcosa che le istituzioni potrebbero fare?
JK: L’occupazione femminile in Italia è intorno 50%, penultimo posto in Europa. In Finlandia l’occupazione femminile è intorno 70%, in crescita. Credo che ci sia l’imbarazzo della scelta fra le politiche che le istituzioni potrebbero mettere in atto per migliorare la parità di genere in questo paese, ma non sono esperto di questa materia. Certamente la gestione dei figli nella coppia e il sostegno reciproco che la società può garantire per entrambi i sessi per evitare emarginazione a causa della maternità è fondamentale. Le istituzioni però non esistono in astratto ma riflettono la cultura e valori del paese. Ecco perché non si scappa: in un contesto in cui la donna non è considerata degna di rappresentare il Dio o di partecipare alla massoneria, dove vogliamo andare? Non credo che sia un caso che uno dei fenomeni culturali più importanti di questo decennio – #metoo – ha avuto molta meno visibilità in Italia rispetto a tanti altri paesi dell’occidente. L’Italia è talmente “sottosviluppata” in materia di pari opportunità, che la gente non ha nemmeno capito le sfumature e l’importanza del messaggio #metoo. Si tratta di un contesto troppo distante da quel movimento, qua si sta ancora aspettando di conoscere le prime ortopediche e preti donna. In Finlandia i mezzi di comunicazione di massa sono passati alla lingua genere neutro e monitorano che nelle notizie si dia apparenza in pari misura per entrambi i sessi.
VF: Come italiani viviamo sempre il complesso di essere culturalmente arretrati rispetto ai paesi scandinavi. Tralasciando il cibo e il vino, c’è qualcosa in cui ti pare che il nostro paese riesca a fare meglio rispetto alla Finlandia?
JK: Io adoro l’Italia e ho scelto di vivere e far crescere i miei figli qua invece che in Finlandia. Credo che questa scelta abbia a che vedere con la qualità di vita, che non si riduce ai soli parametri di indicatori statistici. Italia e Grecia hanno contribuito alla cultura di questo continente in tale misura, che possono camminare testa alta ancora a lungo; nonostante le tante difficoltà che ci sono nel paese, bisogna ricordare che ci sono anche tanti centri di eccellenza, innovazione e creatività. Mi rattrista però vedere l’Italia sprecare le sue risorse – come donne, giovani, ricchezze naturali – grazie ai tanti corrotti, vecchi bunga bunga e l’illusione dell’ ‘uomo forte’. Stento a paragonare i due paesi tra di loro, perché le variabili sono troppe e si cade facilmente nella trappola dei luoghi comuni. Però posso dire che in Italia la rete ferroviaria è più avanzata che in Finlandia, dove alta velocità vera non esiste. Avete una cultura urbana squisita con delle città una più bella dell’altra a dimensione umana – grazie all’architettura dei secoli passati. Credo che nella robotica siate avanti e chiaramente nei tradizionali settori italiani come la moda e gastronomia. C’è poi una condivisione intergenerazionale bella in Italia, coi nonni onnipresenti. Noi Finlandesi siamo sparpagliati ovunque nel paese e come si lascia il nido materno all’età di diciott’anni, i legami familiari si rompono spesso troppo bruscamente.
VF: grazie mille Jouni per il tuo tempo!
Malgrado il Piano di Indirizzo Territoriale Toscano individui nell’area agricola attorno all’abitato di Bagno a Ripoli un’area da sottrarre all’urbanizzazione, i nuovi piani della giunta ripolese vanno in direzione opposta. Il centro sportivo della società viola è infatti solo uno degli interventi che prevedono consumo di suolo agricolo nel comune. Pubblichiamo la lettera aperta della Lista Per una Cittadinanza Attiva di Bagno a Ripoli alla proprietà della AC Fiorentina.
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Presidente Commisso, ci auguriamo che la Fiorentina, nell’immediato futuro, non sia ricordata solo per il centro sportivo più grande e più bello del mondo, perché questo intervento, in una visione più ampia, potrebbe invece passare alla storia come l’inizio della fine del Piano di Ripoli.
Ricordiamo che tutta l’area del Pian di Ripoli ricade sotto numerosi vincoli statali paesaggistici,ma anche idraulici di vario genere, che devono garantire un’assoluta permeabilità del terreno: non a caso la vasta area in questione si chiama “il Padule”.
Ricordiamo che i terreni sono dei privati,ma il territorio è un bene di tutti, specialmente oggi che i mutamenti climatici ce lo ricordano sempre più frequentemente e drammaticamente.
Vorremmo spiegare a Lei,e soprattutto ricordare alla popolazione di Bagno a Ripoli,che oltre a questo Centro Sportivo sono programmati contemporaneamente altri numerosi interventi edilizi e urbanistici che, in breve, faranno del Piano di Ripoli una periferia asservita ai “desiderata” della città di Firenze.
Quello che era il pomaio, l’orto e il Giardino di Firenze, ne diventerà invece il campeggio, il deposito della Tramvia, i parcheggi per un traffico non solo di transito,ma anche di circolazione, che modificheranno completamente usi, costumi e vocazioni di questo territorio, aprendo le porte anche ad attività improprie a carattere di sfruttamento e di impermeabilizzazione del suolo.
La natura degli interventi e la totale occupazione degli spazi ancora liberi banalizzano questi valori storici e ambientali, avvicinandoli in prospettiva a quelli solo commerciali applicati ad altre periferie della piana a nord- ovest di Firenze.
La velocità, ovvero il suo Fast, Fast, non è sinonimo, qui da noi, di presto e bene.
Al Fast d’oltre Oceano contrapponiamo, purtroppo, il presto e fatto male che già conosciamo da interventi in atto anche nel nostro Comune, che non stiamo qui a richiamare.
Il Fast, preso a scusa,non ha permesso di entrare nel merito delle questioni che la complessità degli interventi richiedevano già come scelta più opportuna per il pian di Ripoli e il capoluogo.
Dal punto di vista politico-urbanistico-amministrativo l’incontro di giovedì 28 novembre rappresenta la prima volta in cui i Membri della competente Commissione Urbanistica consiliare, che vorranno essere presenti, apprendono le idee di q uest o prog et t o, non per pa rt ec ipazione alla dec isione, ma c ome r ac c ont o del g ià deciso.
Neppure il Consiglio comunale ha partecipato al processo di indirizzo sulla trasformazione del pian di Ripoli in una periferia di Firenze, mentre gli atti di vendita corrispondevano già a prezzi adeguati a questo futuro imposto o concordato nelle stanze del potere.
Per questo non cesseremo di confidare nell’unico organo rappresentato dalla Soprintendenza nella difesa dei Beni Culturali comuni, visto che la Regione ormai concede varianti in barba a tutti i vincoli e in deroga al Piano di Indirizzo Territoriale (cioè al Piano Paesaggistico), al quale il nuovo Piano strutturale di Bagno a Ripoli aveva già sostanzialmente aderito fin dal 2013-14.
La ringraziamo per l’ascolto, se ne avremo.
Lista per una Cittadinanza Attiva – Bagno a Ripoli
Italia Nostra Onlus
Legambiente – Circolo di Bagno a Ripoli
Il 29 Novembre le Nazioni Unite chiamano il mondo alla solidarietà con il popolo palestinese. Noi abbiamo intervistato Ilaria Masieri, fiorentina, per sette anni cooperante in Palestina oggi responsabile per i progetti in Libano e Palestina della ONG Terre des Hommes Italia.
Verdi Firenze: Ciao Ilaria, ci racconti come è nato il tuo rapporto con la Palestina?
Ilaria Masieri: Sono partita per la Palestina la prima volta nell’estate del 2009, ma la passione per la Palestina è nata molto prima. In parte deriva dalla mia famiglia, i miei genitori erano legati alla battaglia del popolo palestinese e in casa ne parlavamo molto; in parte è dovuta al fatto che all’epoca delle mie superiori era il momento degli accordi di Oslo, della prima Intifada, e quindi di Palestina si parlava molto ovunque. Mi sono appassionata alla questione palestinese e così, quando ho dovuto scegliere l’università, ho scelto di studiare arabo. Mi interessava soprattutto guardare alla storia del Mediterraneo da un’altra prospettiva. Una volta fatta quella scelta da lì la strada è stata tutta in discesa, con l’università, la scuola di cooperazione, e poi la partenza.
VF: Per quanto tempo hai vissuto nei territori e in cosa consisteva il tuo lavoro?
IM: Sono stata lì sette anni, partita come stagista dopo aver fatto un corso a Firenze che prevedeva un periodo di stage. Sono rimasta perché mi hanno offerto un contratto. In quei sette anni ho attraversato un po’ tutti i ruoli che si possono ricoprire in una ONG. Da stagista sono diventata coordinatrice, poi capo-progetto e infine responsabile della delegazione.
Da oltre dieci anni lavoro quasi ininterrottamente con “Terre des Hommes Italia”, che fa parte del movimento internazionale “Terre des Hommes” e si occupa della protezione dei diritti dell’infanzia. In particolare, in Palestina i nostri progetti – essenzialmente finanziati da donatori istituzionali e in piccola parte da donazioni private – si occupano di diritto all’istruzione, alla salute, al gioco e allo sviluppo naturale del bambino. Lavoriamo sia in Cisgiordania che a Gaza, e negli ultimi anni soprattutto a Gerusalemme Est.
VF: La questione palestinese è progressivamente scomparsa sui mezzi di comunicazione nel corso degli anni. Qual è secondo te il motivo?
IM: Sicuramente conta il fatto che in generale si tende a parlare delle crisi umanitarie solo nel momento di massima emergenza. Per questa ragione la questione palestinese, che ha una storia molto antica, fa meno notizia e ha meno presa sull’opinione pubblica in quanto percepita come irrisolvibile. Come se fosse ormai un problema intrinseco al contesto mediorientale, dove si intrecciano grandi interessi internazionali e che pur rimanendo una polveriera risulta una matassa di cui è difficile trovare il bandolo. Ultimamente si è dato spazio nei media alle decisioni del Governo statunitense di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme e di non considerare più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania, senza dare altrettanto spazio alle conseguenze di decisioni sulla popolazione palestinese, pertanto l’opinione pubblica può convenire che si tratti di decisioni legittime proprio perché è poco informata.
Infine esiste, e si vede anche in queste settimane nel dibattito pubblico italiano, una confusione sostanziale tra lo stato di Israele, la questione palestinese, l’occupazione della Palestina e il problema dell’antisemitismo. Per questo poi chiunque provi a prendere una posizione pubblica in favore della battaglia del popolo palestinese rischia di venir tacciato di antisemitismo. Questo sicuramente scoraggia.
VF: Qual è oggi la situazione nella striscia di Gaza e in Cisgiordania?
IM: La situazione attuale, purtroppo in costante peggioramento, è quella di una crisi protratta. Non si parla neanche più di emergenza, perché l’emergenza prevede che ci sia un momento di altissimo bisogno alternato a momenti di stabilità. E qui i momenti di stabilità dal punto di vista economico e sociale non esistono più. La situazione è in costante peggioramento, con momenti di gravissima crisi, che sono quelli in cui essenzialmente noi arriviamo. È una condizione che sicuramente nell’ultimo biennio è peggiorata, soprattutto a causa della politica estera degli Stati Uniti, in particolare delle dichiarazioni e dei gesti che si sono susseguiti da quando Trump è diventato presidente. Di fatto queste hanno dato via libera al governo israeliano su Gerusalemme, sulle alture del Golan e recentemente anche sulla valle del Giordano e sulla Cisgiordania tutta. Per questa ragione si assiste a una colonizzazione feroce e in costante aumento, nonché alla sistematizzazione e ormai istituzionalizzazione della violazione dei diritti della popolazione palestinese. Ci sono comunque delle aree dove la crisi è particolarmente acuta, in questo periodo (ma ormai da molti anni) la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est. Per ragioni molto diverse ma con conseguenze purtroppo simili.
VF: Se un ultimo momento di speranza si era avuto con i discorsi di Obama al Cairo, il tentativo fatto all’epoca è sicuramente fallito. Tu come te lo spieghi?
IM: Io ne do una lettura molto semplice, ovvero che il governo israeliano non ha interesse a cercare la pace con i palestinesi. Il mantenimento dello status quo, che ormai nessuno sa neanche dire da dove provenga (di sicuro non da Oslo (accordi firmati nel 1993-95), non da Camp David (colloqui di pace svolti nel 2000), non dalle posizioni pubbliche prese dall’Unione Europea o dagli Stati Uniti, bensì da una situazione di stallo politico), favorisce essenzialmente gli interessi israeliani.
Se Israeliani e Palestinesi si dovessero seriamente sedere a un tavolo delle trattative, Israele in quanto potenza occupante e di fatto vincitrice (è un dato di fatto se lo si guarda in termini di occupazione di territorio, economia, potere, conformazione interna della società e dello stato) dovrebbe affrontare tre grandi nodi irrisolti che la questione palestinese si porta dietro fin da Oslo. Questi sono essenzialmente il problema di Gerusalemme, delle colonie, e del diritto al rientro dei rifugiati palestinesi che vivono fuori dalla Palestina. Su queste cose Israele non ha alcun tipo di interesse a fare concessioni.
I Palestinesi della diaspora non entrano in Israele, e non c’è modo neanche da parte della comunità internazionale di forzare la mano al diritto di uno stato di non concedere visti d’ingresso sul proprio territorio a cittadini stranieri. Sulla questione di Gerusalemme, di fatto Israele la considera come propria capitale fin dal 1980, e ha ricevuto su questo un forte endorsement da parte di Trump. Anche se il suo discorso non ha appieno rispecchiato ciò che Israele avrebbe voluto, è stato un messaggio forte e di fatto Gerusalemme sta venendo colonizzata quotidianamente. Basti pensare che ormai a Gerusalemme Est ci sono trecentomila abitanti palestinesi e duecentomila coloni israeliani. La questione delle colonie è altrettanto impossibile da affrontare, ma senza affrontarla è impossibile pensare alla creazione di uno stato palestinese. È anche vero che non esiste un fronte comune palestinese, e non esiste alcuna forma di alleanza che possa farsi portavoce delle istanze palestinesi – come è stato in passato l’Egitto di Nasser o in minima parte l’Iraq di Saddam Hussein. Il mondo arabo è fortemente diviso al suo interno, proprio su interessi che riguardano il Medioriente.
VF: Le responsabilità del governo Israeliano e statunitense sono abbastanza chiare da quello che ci racconti. Ma pensi che ci siano anche responsabilità da parte di altri attori che possono essere disinteressati a una soluzione pacifica?
IM: Assolutamente sì, il disinteresse è direi la cifra generale, ed è sicuramente condiviso anche da tutto il mondo arabo. Vari attori sono interessati a mantenere l’equilibrio esistente nell’area. E poì c’è la grande responsabilità politica di Fath e Hamas, le divisioni interne alla leadership palestinese rendono quasi impossibile trovare delle istanze comuni.
VF: Tu pensi ci sia qualcosa che possiamo fare, partendo dall’Europa e dall’Italia per arrivare a livello comunitario o individuale? C’è qualcosa che si può fare per il popolo palestinese, oltre a condividere un post sui social?
IM: Io credo che si possa fare moltissimo. Per chi se lo può permettere credo valga davvero la pena andare a vedere con i propri occhi come stanno le cose, perché è una situazione in cui le ingiustizie e le violazioni dei diritti delle persone sono così evidenti da risvegliare immediatamente le nostre coscienze.
Poi ci sono moltissimi gesti che ognuno può fare. Innanzitutto, è importante informarsi e parlarne, partecipare a iniziative, cercare di fare attenzione nel nostro piccolo alle scelte quotidiane, come l’acquisto di prodotti o i messaggi che condividiamo. Questo vale anche per quanto riguarda i nostri ruoli professionali, e penso agli insegnanti, alle scuole, a chi ha accesso alla sfera politica.
Credo che l’Italia possa e debba fare tantissimo in quanto paese e in quanto membro dell’Unione Europea. Si tratta soprattutto di fare rispettare il diritto internazionale, perché non bisogna inventare niente affinché i palestinesi e le palestinesi, e in particolar modo bambini e bambine, vedano riconosciuti i propri diritti essenziali – a partire dal diritto alla vita, all’espressione, allo studio. È tutto già a disposizione: ci sono le convenzioni, i trattati, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU; ciò che serve è che il nostro governo, a partire dai governi locali, si prenda la responsabilità di fare rispettare queste convenzioni. Sono convinta che dal momento in cui si abdica al proprio dovere di far rispettare le leggi internazionali – anche se lontano da noi – ciò che stiamo dando via sono non solo i diritti altrui, ma anche i nostri.
Questo è valido anche da un punto di vista ambientale. Leggevo stamattina del gravissimo problema di smaltimento dei rifiuti all’interno della Striscia di Gaza. A Gaza non ci sono fognature, perché sono state bombardate, i materiali per ripararle non possono entrare in quanto soggetti a un possibile doppio uso (secondo le norme imposte da Israele potrebbero essere utilizzati per fabbricare armi), le tre discariche di Gaza sono piene e non è quindi possibile in nessun modo smaltirli o sistemarli in maniera razionale, e i rifiuti non possono uscire dalla Striscia di Gaza perché Israele non lo consente. Ecco, Gaza è sul Mar Mediterraneo e si parla di duemila tonnellate di rifiuti indifferenziati al giorno. Ci riguarda tutti, perché è l’altra sponda del Mediterraneo. Non è un viaggio lungo, né con la mente né fisicamente. Sono i nostri vicini di casa.
VF: Grazie Ilaria per il tuo tempo e buon lavoro.
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La foto di copertina è gentile concessione di Alessio Romizzi.
Pubblichiamo l’appello promosso da Caterina Arciprete, Lucia Ferrone e Caterina Francesca Guidi a un anno dal rapimento di Siliva Romano.
“Amo piangere commuovendomi per emozioni forti, sia belle sia brutte, ma soprattutto amo reagire alle avversità.
Amo stringere i denti ed essere una testa più dura della durezza della vita. Amo con profonda gratitudine l’aver avuto l’opportunità di vivere»
Silvia Romano
Il prossimo 20 novembre 2019 ricorre 1 anno dal rapimento della 24enne cooperante italiana Silvia Costanza Romano, rapita mentre faceva volontariato con i bambini in un villaggio del Kenya con la Onlus italiana Africa Milele. Di Silvia non si hanno notizie certe da oltre 11 mesi. Negli ultimi mesi si sono alternate notizie ufficiali ed ufficiose sulle dinamiche del rapimento, ma l’unica verità è che è passato un anno e non sappiamo Silvia come sta, se sta bene, se è protetta, se è viva.
La politica italiana non sembra impegnarsi a sufficienza per la liberazione della cooperante milanese. Un silenzio assordante che vogliamo riempire con la nostra voce.
Ci stringiamo intorno alla famiglia di Silvia e chiediamo al Governo di mobilitarsi in tutti i modi possibili e di chiarire la situazione affinché non debba passare più un giorno senza Silvia.
Chiediamolo tutt* insieme
il 20 Novembre 2019 dalle ore 18.00 alle ore 19.00
Piazza dei Ciompi, Firenze
Per aderire al sit-it manda una mail a: unannosenzasilvia@gmail.com
Possono aderire singoli, associazioni, organizzazioni, università e partiti politici.
LISTA PROMOTRICI “Donne per Silvia”
Caterina Arciprete
Lucia Ferrone
Caterina Francesca Guidi
SOTTOSCRITTORI – ASSOCIAZIONI (in continuo aggiornamento)
Verdi Firenze
AGESCI, Firenze
Anelli Mancanti
Arci Firenze
Associazione Piazza della Vittoria
CNGEI, Firenze
Comitato Fermiamo la Guerra
Comitato Firenze Possibile “Piero Calamandrei”
Comitato Firenze Possibile “Arianuova”
COSPE
È viva, Toscana
Emergency Firenze
Europa Verde Toscana
Firenze Città Aperta
Gruppo consiliare in Sinistra Progetto Comune
Gruppo scout AGESCI Firenze 12
Libere Tutte
Associaçao Angolana Njinga Mbande
Nosotras
OXFAM
PD Metropolitano di Firenze
Piccola Scuola di Pace dell’Isolotto “Gigi Ontanetti”
Potere al Popolo – Firenze
Movimento Federalista Europeo, Firenze
Progetto Arcobaleno
Rete Antirazzista di Firenze
Rifondazione Comunista Firenze
Senso Comune Firenze
Società della Ragione
Sì Toscana a Sinistra
Sinistra Italiana Toscana
Sinistra per Lastra
Volt Firenze
SOTTOSCRITTORI (primi 30 aderenti in ordine alfabetico)
Jacopo Bencini
Alessandro Bezzi
Moreno Biagioni
Mario Biggeri
Ugo Biggeri
Antonella Bundu
Marcella Bresci
Sandra Carpi Lapi
Duccio Chiarini
Lorenzo Ci
Claudia Cultraro
Daniela Chironi
Nicoletta Dentico
Pape Diaw
Tommaso Fattori
Patrizia Faustin
Lorenzo Fiesoli
Chiara Gaspari
Vittorio Iervese
Andrés Lasso
Antonella Lamberti
Daniela Lastri
Paolo Maggi
Dmitrij Palagi
Luisa Petrucci
Antonella Pino
Francesca Rossetti
Serena Spinelli
Massimo Torelli
Donella Verdi
Di Gianni Scotto*
La versione originale di questo pezzo è apparsa sulla Aspenia on line, curato dall’Aspen Institute Italia, che ringraziamo. Giovanni Scotto è professore di Sociologia all’università di Firenze, e membro del Comitato scientifico dei Verdi italiani. E’ tra i fondatori della Piccola scuola di pace “Gigi Ontanetti” a Firenze.
Nella prima settimana di settembre, l’osservatorio sull’atmosfera di Mauna Loa, alle Hawaii, ha misurato un concentrazione di CO2 di 408,80 parti per milione (ppm), con un aumento rispetto alla stessa settimana dell’anno precedente di 3,30 ppm. Questi numeri parlano di una realtà assolutamente allarmante: l’aumento della CO2 nell’aria segue un andamento esponenziale, ed è in netta accelerazione negli ultimi anni. Alla fine della guerra fredda la media decennale di aumento era intorno alle 1,5 ppm all’anno. Negli ultimi anni il valore annuale medio ha sfiorato o raggiunto le 3 ppm. A settembre è sembrata esserci un’accelerazione ulteriore.
Nel corso del 2019 la CO2 ha toccato un massimo stagionale di 415 ppm, e l’aumento medio delle temperature rispetto all’epoca pre-industriale è già di oltre 1°C. L’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, forum scientifico creato dall’ONU) lo scorso ottobre ha ammonito la comunità internazionale: è indispensabile rimanere sotto il grado e mezzo di aumento entro la fine del secolo, e per far questo bisogna dimezzare le emissioni entro il 2030, azzerarle per il 2050.
Troppo facilmente decisori politici e commentatori accantonano evidenze del mondo fisico. Giova rammentare che sappiamo dell’effetto serra dovuto alla CO2 nell’aria da oltre un secolo. Sappiamo che il sistema industriale emette questo ed altri gas climalteranti in misura significativa. Da oltre quarant’anni è chiara la possibilità del riscaldamento globale. Gli studiosi in modo pressoché unanime hanno individuato l’esistenza del problema, le cause e le sue gravissime implicazioni.
E’ alquanto surreale che 20 anni dopo ci sia ancora un dibattito sulla realtà del cambiamento climatico!
Il sistema internazionale ha provato a rispondere al problema del cambiamento climatico fin dal 1992, con la convenzione quadro di Rio, che detta tuttora le regole per la determinazione delle politiche globali per il clima. Il protocollo di Kyoto è del 1997 e indicava modesti obiettivi di riduzione rispetto al livello di emissioni del 1990, validi solo per i paesi industrializzati e peraltro in parte disattesi. Terminato nel 2012 il periodo di applicazione del protocollo, alla Conferenza di Parigi la comunità internazionale è passata a definire un obiettivo preciso – restare al di sotto dei 2 °C di aumento entro la fine del secolo – chiedendo agli stati impegni su base volontaria. Da parte loro, gli scienziati hanno valutato come insufficiente gli impegni formulati fino ad oggi.
La questione è che gli effetti del riscaldamento globale si stanno manifestando in diversi campi molto più rapidamente del previsto: dallo scioglimento dei ghiacci ai poli con conseguente aumento del livello dei mari, all’aumento di temperature, all’intensificarsi di eventi climatici estremi. L’estate del 2019 sarà anche ricordata per gli incendi che hanno devastato la Siberia, l’America Latina e l’Africa australe: a un tempo effetto e causa ulteriore del riscaldamento globale.
Gli Stati Uniti avevano identificato nel riscaldamento globale un problema di sicurezza già nella Strategia di Sicurezza Nazionale (NSS) del 1994: un quarto di secolo fa. Il cambiamento climatico è stato definito una “minaccia immediata e crescente alla sicurezza nazionale” nella più recente NSS del 2017. Questo riconoscimento sulla carta non ha però condotto a cambiamenti di policy rispetto alle emissioni di gas climalteranti. Nel nostro paese, il Libro bianco della Difesa del 2015 identificava il cambiamento climatico come uno di molti fattori di instabilità globale. Anche da noi, però, questa presa di consapevolezza è rimasta sulla carta.
Negli ultimi mesi, anche in risposta a una mobilitazione civica senza precedenti a livello praticamente globale (circa 150 Paesi), alcuni stati e autorità locali hanno prodotto delle Dichiarazioni di emergenza climatica. Si è trattato finora dell’espressione formale di un principio. Tuttavia dichiarare un’emergenza significa anche riconoscere alcune caratteristiche di fondo di ciò che accade: si tratta di una situazione nuova e eccezionale; questi fatti vanno compresi in termini di minaccia immediata al benessere, alla salute e alla sicurezza degli esseri umani di tutto il mondo, e delle comunità di cui fanno parte; alla nuova situazione è necessario dare una risposta straordinaria.
In altre parole, dichiarare l’emergenza climatica significa riconoscere e promuovere la securitizzazione del discorso sul riscaldamento globale. Se un tema entra a far parte della sfera di sicurezza, e viene compreso come un rischio evidente e immediato per i cittadini, è chiaro che la politica deve trovare risposte nuove su scala appropriata e di immediata applicazione.
Se le autorità di uno Stato – Parlamento, Governo – dichiarano lo stato di emergenza climatica, questo potrebbe rendere possibile adottare decisioni per la limitazione delle emissioni climalteranti – in campo economico, industriale, di politica dei trasporti etc – che non realizzabili possibili in regime di normalità ma potrebbero essere giustificati dalla securitizzazione del tema.
Gli Stati assumono regolarmente decisioni riguardanti la sicurezza nazionale seguendo norme e procedure diverse da quelle che regolano i casi normali; questo è in effetti un attributo fondamentale delle sovranità. La libertà di commercio può essere limitata, ad esempio vietando la vendita di asset strategici a investitori stranieri, o la diffusione di particolari tecnologie. Estendere la securitizzazione al problema del clima, prendendo decisioni eccezionali per la limitazione delle emissioni di CO2 sarebbe semplicemente un’estensione di un principio politico che gli stati riconoscono e utilizzano da sempre.
Un discorso simile può essere fatto per la determinazione delle politiche industriali. In questo caso non si tratterebbe di bypassare limiti normativi che si applicano a tempi normali, ma più semplicemente di cambiare i criteri per la scelta degli investimenti pubblici da compiere o gli obiettivi gestionali da perseguire. Provo a fare due esempi.
La tipologia e la qualità degli investimenti infrastrutturali andrebbe decisa non solo sulla base dei costi e benefici direttamente imputabili all’opera ma anche all’ammontare di emissioni dirette e indirette. E’ utile ricordare, riguardo a molte grandi opere, che la produzione di cemento è anch’essa una rilevante fonte di emissioni di CO2. Riorientare gli investimenti pubblici è condizione necessaria per l’urgentissima transizione di cui abbiamo bisogno.
Secondo esempio: tradizionalmente la produzione di idrocarburi viene considerata come un elemento strategico del sistema economico. Con la securitizzazione delle politiche di tutela del clima sarà opportuno considerare strategico anche l’ammontare delle emissioni imputabili agli idrocarburi estratti, considerando che 100 aziende sono responsabili per oltre il 70% delle emissioni di gas climalteranti.
Se, come dice l’IPCC, è imperativo per la sicurezza globale dimezzare le emissioni da qui al 2030, sarà necessario che le imprese di estrazione degli idrocarburi dimezzeranno la loro produzione per quella data. Come realizzare questo obiettivo mantenendo un equilibrio tra costi e ricavi, è una grande sfida tecnologica e di management. Molte aziende estrattive sono di proprietà pubblica: è così anche in Italia dove lo Stato è azionista di controllo. Per fare sul serio nella lotta ai cambiamenti climatici, lo Stato dovrebbe chiedere un piano di diminuzione controllata della produzione da qui al 2030, proprio perché la diminuzione delle emissioni è una vitale questione di interesse nazionale. Per mantenere l’Italia e il mondo nello stretto sentiero che può condurci a evitare il peggio.