Potete ascoltare qui l’intervista a Caterina Arciprete sul commissariamento della Federazione toscana a Controradio.
Con le dimissioni in blocco di tutti i componenti eletti della Federazione dei Verdi di Firenze si chiudono due anni di lavoro nel quale gli ecologisti fiorentini hanno tentato di rilanciare il movimento verde a Firenze.
Gli esecutivi della Federazione provinciale dei Verdi di Firenze e dell’Associazione comunale dei Verdi di Firenze si sono riuniti il 5 Marzo 2020 congiuntamente in un’assemblea aperta a tutti gli iscritti alla quale hanno avuto il piacere di avere ospiti anche alcuni iscritti di Pistoia e di Arezzo.
L’assemblea ha ritenuto, all’unanimità degli intervenuti, un grave errore politico e un atto in violazione delle norme statutarie il commissariamento della Federazione regionale dei Verdi della Toscana disposto dall’Esecutivo nazionale il tre Marzo 2020.
A partire da luglio la dirigenza regionale aveva lavorato alla costruzione di una lista per le prossime elezioni regionali toscane. La scelta era stata discussa in quattro assemblee di tutti gli iscritti, quattro momenti di partecipazione autentica nei quali si è progressivamente delineata la scelta di una lista congiunta con alcune forze di sinistra e civiche all’interno della coalizione del centro sinistra.
L’Esecutivo nazionale ha però deciso che questa scelta dell’assemblea non fosse accettabile. Non potendo intervenire sulla decisione politicamente perché lo statuto federale dei Verdi garantisce autonomia alle regioni, ha provveduto ad azzerare tutti gli organi eletti e a nominare Francesco Alemanni commissario straordinario.
Gli esecutivi comunale e provinciale di Firenze considerano questa modalità di azione politica miope e distruttiva e richiedono che il commissario nominato venga al più presto a Firenze per un incontro aperto a tutti gli iscritti toscani.
Gli intervenuti hanno dichiarato di voler rimanere, per il momento, regolarmente iscritti alla Federazione, e di voler fare tutto il possibile per difendere e valorizzare l’importante lavoro politico ecologista degli ultimi due anni nella città e nell’area metropolitana.
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A seguito dell’incontro hanno deciso di dare le loro dimissioni tutti i componenti delle dirigenze della Federazione provinciale e dell’Associazione comunale di Firenze:
Paolo Brunori, co-portavoce della Federazione provinciale di Firenze
Alessandra Petrioli, co-portavoce della Federazione provinciale di Firenze
Cecilia Armellini, membro dell’esecutivo provinciale
Giacomo Bianchi, membro dell’esecutivo provinciale
Marta Brenna Ghedina, membro dell’esecutivo provinciale
Damiano Ghiozzi, membro dell’esecutivo povinciale
Elena Torta, membro dell’esecutivo provinciale
Caterina Arciprete, co-portavoce dell’Associazione comunale di Firenze
Giovanni Graziani, co-portavoce dell’Associazione comunale di Firenze
Samuele Becattini, membro dell’esecutivo comunale
Matteo Scatarzi, membro dell’esecutivo comunale
Elena Torta, membro dell’esecutivo comunale
Hanno deciso inoltre di rimettere il loro mandato tutti i consiglieri federali nazionali eletti dalla Federazione toscana: Cecilia Armellini, Paolo Brunori e Alessandra Petrioli.
Marta Brenna Ghedina e Andrés Lasso, che avrebbero diritto di subentrare nel Consilgio federale nazionale come sostituti, hanno dichiarato che non intendono essere nominati consiglieri.
Il sito www.dueanniverdiafirenze.it, per il momento rimane a testimonianza dei due anni di vita della Federazione fiorentina, in attesa che il gruppo di persone che è titolare del dominio e ne ha curato i contenuti decida cosa farne.
I Verdi di Firenze desiderano ringraziare tutti quelli che in questi due anni li hanno incoraggiati ed aiutati e sperano di poter tornare presto a lavorare per l’obiettivo prioritario di costruire un partito ecologista credibile, come il nostro paese meriterebbe.
Un sguardo sulla crescita della collassologia in Francia scritto per noi da David Clément.
Il movimento e corrente di pensiero chiamata “collapsologie” (“collassologia” in italiano) sta guadagnando visibilità in Francia, in un contesto internazionale di maggiore consapevolezza dei problemi legati ai cambiamenti climatici. Questo termine, che deriva da “collapse” inglese (collasso), può risultare spaventoso poiché associato all’idea di un futuro terribile per gli uomini. Ma la corrente di pensiero collassologico, almeno nella sua versione più diffusa, non cade in un catastrofismo amorfo, senza rimedio. Al contrario, cerca di mettere in evidenza linee di riflessione e di azione per consentirci di affrontare i drastici cambiamenti prevedibili per un prossimo futuro, verso i quali siamo certamente già avviati.
Il termine collassologia evoca ovviamente i pericoli che l’umanità dovrà affrontare: i cambiamenti climatici, l’esaurimento delle risorse e delle materie prime, le modifiche dei cicli della biosfera da parte delle attività umane – ciclo di carbonio, acqua, fosforo – , difficoltà di trasporto, … Sviluppi che porterebbero a un drastico cambiamento negli equilibri che governano le nostre società e il nostro pianeta oggi, vale a dire niente meno che lo stravolgimento del mondo nel quale viviamo. Va inoltre sottolineato che le analisi condotte da questa corrente di riflessione sulla situazione esistente assumono un approccio scientifico, che si basa su studi esistenti e su una comunità di scienziati che partecipano al movimento. Il movimento condivide gli studi dell’IPCC (International Panel on Climate Change) sul clima o quelli relativi alla decrescita. Figure di spicco come l’agronomo Pablo Servigne o l’esperto in resilienza dei sistemi socio-ecologici Raphaël Stevens fanno parte della corrente di pensiero francese della collassologia.
I collassologi condividono quindi, con un numero crescente di persone, analisi scientifiche sul clima, sulle risorse naturali e sull’impatto delle attività umane. Per questo movimento, tuttavia, non si tratta solo di elaborare un’osservazione sui vari aspetti che abbiamo appena menzionato, limitandosi a rappresentare un futuro catastrofico sotto diversi aspetti. Da un lato, viene proposta una riflessione globale sul funzionamento delle nostre società, del nostro pianeta e delle loro varie interazioni, sotto forma di analisi di sistemi complessi. D’altra parte, i collassologi desiderano costruire oggi le basi, sotto forma di resilienza, che ci permetterebbero di continuare a vivere serenamente dopo il crollo.
Se è vero che i collassologi condividono analisi scientifiche sull’evoluzione del clima e della biosfera e sulle conseguenze dell’attività umana su di esse, è altrettanto vero che essi orientano anche la riflessione verso terreni meno scientificamente stabili, quelli di sistemi complessi. Si tratta cioè di descrivere l’insieme dei legami di dipendenza delle società umane e della Terra, al fine di comprendere i meccanismi alla base di queste interconnessioni. Ad esempio, per descrivere il tipo di collasso che dovremmo affrontare, viene proposto un confronto con le transizioni di fase descritte dalla fisica dei media complessi: in un sistema composto da pochi attori e poche connessioni, il deterioramento di alcune connessioni porta immediatamente all’avvio di una lenta evoluzione dell’intero sistema; al contrario, in un sistema complesso, fatto di molte interconnessioni, come il nostro, il deterioramento sarà inizialmente compensato dal sistemo stesso per mantenersi nel suo stato globale, fino a quando non si verificherà un cambiamento improvviso, quando le compensazioni diventeranno impossibili. È questo secondo scenario che è previsto dai collassologi per il nostro futuro. È uno scenario che viene anche da loro usato per spiegare perché non abbiamo ancora sperimentato una trasformazione profonda dovuta al fatto che per diversi decenni abbiamo consumato più risorse di quante ne possa produrre la Terra (il verificarsi regolare di fenomeni climatici estremi o la volatilità nei mercati finanziari delle materie prime negli ultimi anni potrebbe minare questa osservazione). La conseguenza di questo secondo scenario sarebbe un brutale cambiamento, nel corso di un arco temporale ridotto, del nostro ambiente. Queste previsioni di un rapido collasso non hanno solide basi scientifiche e sono più che altro ipotetiche. Tuttavia, riflettere sul ruolo e l’importanza delle diverse connessioni del complesso sistema umano-Terra potrebbe generare nuove idee e indirizzare azioni future.
Per i collapsologi, non c’è dubbio che prima o poi raggiungeremo la fine del mondo in cui viviamo. L’Antropocene come lo conosciamo oggi non può essere sostenibile. In questo, il movimento afferma una constatazione che va al di là di quelle proposte da altre correnti di pensiero a partire da osservazioni simili sullo stato del nostro pianeta. Ad esempio, la collassologia si spinge più lontano rispetto a molti movimenti ecologisti, considerando che nessuna energia alternativa (rinnovabile o di altro tipo) è in grado di fornire energia a basso costo e concentrata come i combustibili fossili, e che sarà quindi necessario riprogettare e riconfigurare la maggior parte delle nostre infrastrutture (trasporti, elettricità, edifici, sistemi alimentari) che sono state tutte progettate in relazione alle caratteristiche del petrolio, del gas naturale e del carbone (vedi nucleare, come in Francia).
Va notato che questi punti sono stati oggetto di molte riflessioni da parte delle correnti che sostengono la decrescita e di cui si nutre la collassologia. In effetti, possiamo notare che un’istituzione come il Institut Momentum (www.institutmomentum.org) che promuove la collassologia in Francia proviene dal movimento ecologista e per la decrescita. Il suo presidente non è altro che Yves Cochet, ex deputato europeo ed ex ministro dell’Ambiente, e vicino a teorici della descrescita come Serge Latouche.
Una delle forti caratteristiche del movimento della collasologia è la promozione di un atteggiamento consapevole e attivo nei confronti dei rischi identificati e la necessità di un cambiamento radicale nell’organizzazione delle nostre società. Cercando di andare oltre l’osservazione del futuro collasso precedentemente introdotto, il tema dello sviluppo della resilienza è un obiettivo centrale del movimento. È promosso in modo positivo e creativo, con un ruolo fondamentale attribuito all’immaginazione: il mondo post-collasso è interamente da inventare! Questo atteggiamento si riflette sia nelle parole d’ordine che nei titoli delle riviste (“Crollo e rinnovo” è quello della rivista Yggdrasil). Nell’ideologia del collassologo, l’utopia ha cambiato orizzonte : è utopico credere che tutto possa continuare come prima. Al contrario, il collasso sarebbe l’inizio di un futuro da costruire.
Al fine di anticipare il collasso futuro, la collassologia invita a organizzarsi ora. Pertanto, possiamo citare la promozione del ripristino degli ecosistemi, l’istituzione di nuovi sistemi alimentari, l’uso del territorio, la permacultura rurale e urbana, lo sviluppo delle energie rinnovabili e l’autonomia energetica, l’economia cooperativa, i vari tipi di resilienza, la solidarietà pratica, nuove forme di democrazia. Ancora una volta, molte di queste proposizioni non sono specifiche di questo movimento, che tuttavia propone con forza lo sviluppo della resilienza a livello locale.
Alla base di questo atteggiamento c’è una doppia osservazione: da un lato, le decisioni globali (europee e internazionali) sembrano politicamente impossibili; dall’altro lato le questioni legate al cambiamento climatico dipendono dalla posizione geografica considerata (tra le montagne e il bordo degli oceani per esempio). Se è difficile non condividere questa doppia osservazione, suscita qualche perplessità la volontà di alcuni collassologi di sviluppare comunità regionali, sviluppando la resilienza adeguata al loro territorio e alla loro storia, in contrapposizione a quelle delle regioni confinanti. L’idea di un certo ripiegamento all’interno di una comunità regionale puo` essere discussa da un punto di vista sociale. Evitando queste derive, è comunque stimolante interrogarsi sulla rilevanza del livello locale per costruire un’alternativa al mondo attuale e sul networking a livello globale esistente fra queste resilienze locali.
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Foto di copertina: yggdrasil-mag.com
Di Costanza Loni, Federazione dei Verdi di Firenze – Europa Verde
La morte di Nicolò Bizzari poche ore dopo una caduta in Piazza Brunelleschi porta all’attenzione di tutti ciò che tutte le persone con disabilità conoscono bene: le condizioni indecenti dei marciapiedi e della pavimentazione delle strade e delle piazze di Firenze.
Da tempo le associazioni di categoria delle persone con disabilità denunciano questa situazione e ciò che hanno sempre affermato si dimostra oggi tragicamente vero. Questa situazione rappresenta un rischio per l’incolumità delle persone che si muovono con difficoltà o con ausili tipo carrozzine manuali ed elettriche. Le richieste di porre fine a questo stato di cose sono sempre state inascoltate e snobbate ed è terribile che si debba risollevare questo problema di fronte a una tragedia.
Bisogna prevenire e non attendere incidenti per accettare che le persone con disabilità avevano ragione. Inoltre lo stesso rischio vale per le persone anziane che al giorno d’oggi rappresentano quasi il 25% della popolazione. Per non parlare delle persone che non hanno particolari difficoltà fisiche e nonostante tutto sono vittime anche loro di traumi dovuti a pavimentazione disconnesse e buche non chiuse.
Senza avere gli elementi per poter giudicare il caso specifico, e non volendo in alcun modo mettere in dubbio la professionalità del personale dell’Ospedale di Santa Maria Nuova, occorre ricordare che da tempo le associazioni hanno sollevato il problema che le persone con disabilità non ricevono adeguate cure da assistenza e non hanno pari accesso ai servizi sanitari come tutti gli altri cittadini, compresi i pronto soccorsi, dove capita che il personale non sia adeguatamente preparato ad affrontare l’assistenza a persone con gravi disabilità. La Regione Toscana ha attivato un progetto a riguardo che però fatica a decollare.
Comunque è vergognoso che nel 2020 si legga nello stesso articolo che per la caparbietà del giovane disabile nella Facoltà di Lettere si stesse facendo molto per abbattere le barriere architettoniche. Anche semplicemente ammetterlo dovrebbe rappresentare una vergogna dato che le barriere architettoniche non ci dovrebbero essere per legge ed inoltre non dovrebbe servire “la caparbietà” di uno studente con disabilità per abbatterle, ma dovrebbe essere fatto come routine ordinaria di messa a norma degli edifici universitari. Ma la mentalità odierna è tale che non ci si imbarazza di fare pubblicamente tale affermazioni.
Altra vergogna è che al momento di transennare la zona di selciato dove si trovava la buca sequestrata dalla magistratura, si è scoperto che era stata velocemente asfaltata in poche ore, dimostrando che quando si vuole si può e che le colpe sono talmente evidenti che si cerca velocemente di coprirle, anche in senso figurativo.
Questa tragica vicenda ha sollevato il velo su situazioni che accettiamo passivamente da troppo tempo: la prima che non sono riconosciuti e rispettati i diritti delle persone con disabilità, sanciti anche dalla Convezione ONU, ratificata dallo Stato Italiano e la seconda che il centro della città di Firenze, patrimonio dell’UNESCO, versa in condizioni pietose e pericolose per TUTTI I CITTADINI in particolare i più deboli.
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La foto di copertina è di Richard Masoner
Un ponte di cui si potrebbe fare a meno, le alberature da preservare e soprattutto l’assurda – ed evitabile – rottura di carico in piazza della Libertà. Le osservazioni dei Verdi – Europa Verde Firenze sulla nuova tramvia per Bagno a Ripoli.
La nuova linea 3.2.1 prevede il capolinea fiorentino in piazza della Libertà, da qui un percorso di 7,4 km interesserà i viali di Circonvallazione, i quartieri di Bellariva e Gavinana, viale Europa fino ad arrivare a Bagno a Ripoli dove sarà realizzato anche un nuovo parcheggio scambiatore e un area per il deposito dei convogli.
Come abbiamo più volte espresso, sia durante la campagna elettorale per le amministrative dello scorso anno, che nei nostri interventi e approfondimenti sul tema (come in questa intervista all’esperto Ing. Mantovani: https://www.dueanniverdiafirenze.it/federazione/2019/11/03/futuro-e-criticita-del-sistema-tramviario-fiorentino-otto-domande-a-giovanni-mantovani/), siamo favorevoli allo sviluppo del sistema tramviario fiorentino, come componente chiave per un sistema di trasporto pubblico efficiente a livello metropolitano e locale.
Allo stesso tempo, consideriamo fondamentali due aspetti:
L’analisi del progetto definitivo presentato dal Comune di Firenze, di cui è attualmente in corso la procedura di verifica di assoggettabilità a V.I.A., ha lasciato in noi forti perplessità che abbiamo tradotto in osservazioni presentate formalmente agli uffici comunali assieme a proposte di varianti migliorative.
La prima questione che poniamo è proprio l’efficienza del sistema nel suo insieme. L’inevitabile disagio che aspetta i fiorentini durante la fase dei lavori, in particolare lungo i Viali di Circonvallazione, dovrà essere ripagato da un sistema integrato che permetta di spostarsi in modo efficiente e rapido tra le diverse zone della città. Rinunciando al passaggio dal centro storico e realizzando il capolinea della nuova linea per Bagno a Ripoli in Piazza della Libertà, si crea un punto di rottura importante che, di fatto, renderà il viaggio dalla zona sud-est di Firenze al nodo della Stazione SMN peggiore che con il sistema attuale.
Se pensiamo che la nuova linea 3.2.1 per Bagno a Ripoli, già dal nome, sia legata all’idea di essere una diramazione della linea 3 per Careggi, non avrebbe più senso far terminare questa alla Fortezza invece che in piazza della Libertà? I binari di questa potenziale deviazione sono tra l’altro già presenti in viale Strozzi.
Sarebbe così possibile creare un sistema integrato in cui poter collegare tra loro ogni capolinea, come illustrato nello schema seguente.
In tal modo, in esercizio si potrebbero avere:
Questa soluzione può essere ottenuta modificando l’intenzione di terminare la linea 3.2.1 in piazza della Libertà, andando a creare un sistema che collegherebbe tra loro 4 zone periferiche con un considerevole disincentivo all’uso dell’auto privata. Oltretutto, questa soluzione, potrebbe essere anche alternativa all’ipotesi di prolungamento della T2 con la variante Vacs (Alternativa al Centro Storico) verso piazza S. Marco.
Entrando nel merito delle scelte progettuali della nuova linea verso Bagno a Ripoli, riteniamo che la costruzione di un nuovo ponte, tra Bellariva e Gavinana, sia da evitare. Pensiamo che sia paradossale, per la realizzazione di un’infrastruttura di trasporto che dovrebbe mirare a ridurre il traffico veicolare privato a favore dell’utilizzo del mezzo pubblico, passare dalle attuali quattro corsie destinate alle auto presenti sul ponte da Verrazzano a sei corsie in totale (due sul vecchio e quattro sul nuovo ponte), incentivando di fatto il traffico privato.
Meglio sarebbe riprendere in considerazione la prima delle quattro ipotesi progettuali presentate dal Comune alla cittadinanza a ottobre 2018, in cui la linea tramviaria, dopo aver attraversato il Ponte da Verrazzano e raggiunto piazza Ravenna, si biforca in piazza Gavinana con un ramo su viale Giannotti e l’altro su via Giovanni delle Bande Nere, piazza Gualfredotto, via Datini, via Federico di Antiochia, largo Novello. In viale Europa, alla rotonda con largo Novello, i due rami si ricongiungono.
Con questa soluzione, avendo un binario singolo sul primo tratto di viale Giannotti, è possibile mantenere corsie per il traffico veicolare in entrambe le direzioni anche all’altezza del tratto tra piazza Gavinana e il circolo Vie Nuove, che sarebbe altrimenti un nodo critico.
Il diverso percorso dei binari per una tratta limitata è una soluzione già adottata con successo nel caso della linea 3 tra piazza Dalmazia e piazza Leopoldo. Inoltre, un ramo in direzione centro che passa da via Datini anziché da viale Europa permetterebbe di servire meglio gli abitanti del quartiere, che si sviluppa più nella sua parte vicina a via Villamagna rispetto alla parte verso via di Ripoli.
Chiudiamo con due osservazioni in merito alla salvaguardia del patrimonio alberato e alle scelte di mantenimento del verde, per un’opera che ha tra gli obiettivi quello di ridurre l’impatto sull’ambiente dei nostri stili di vita.
La nuova linea, che dovrebbe essere costruita a partire da fine 2020, interessa diversi viali alberati alcuni facenti parte di zone con vincolo storico-paesaggistico quali i viali del Poggi. È previsto quindi un piano di sostituzione di circa 480 piante ma non vi è nessuna attenzione particolare agli alberi monumentali che, secondo la legge 10/2013 sul verde urbano, dovrebbero essere valutati secondo criteri specifici, mai definiti dal nostro Comune. Potrebbe essere questa una buona occasione per farlo? Noi abbiamo fatto una proposta nelle nostre osservazioni che sono consultabili qui.
Infine, la proposta della nuova Piazza Beccaria è affascinante, con l’obiettivo di fondo di dare maggiore importanza e risalto a Porta la Croce, riprendendo le progettualità di Giuseppe Poggi. Ma, con la nuova pavimentazione, si andrebbe a creare un’unica superficie impermeabile in pietra e asfalto, eliminando le attuali aree a verde.
Pensiamo che queste potrebbero essere facilmente essere reinserite nelle varie fasce concentriche oggi ipotizzate, intervallando quelle di pavimentazione. Questo potrebbe produrre importanti vantaggi come:
Vi proponiamo alcuni spunti dal rapporto Nevediversa 2019 di Legambiente che discute la sostenibilità degli sport invernali in Italia e parla anche del progetto di nuovo impianto sull’Appennino Tosco-Emiliano alla Doganaccia.
In un pianeta in balia dei cambiamenti climatici e dal conto alla rovescia per la propria sopravvivenza, anche l’abitudine alla montagna innevata deve fermarsi a riflettere per capire come adeguarsi e ripensarsi.
E’ necessario iniziare da adesso a progettare un futuro per le nostre montagne. In pochi sanno infatti che il cambiamento climatico risulta più rapido nelle zone montuose rispetto a quelle pianeggianti: ogni grado centigrado in più registrato nelle terre emerse corrisponde a un +2° sulle Alpi.
Secondo i ricercatori dell’Institute for Snow and Avalanche Research (SLF) e del CRYOS Laboratory dell’École Polytechnique Fédérale se i paesi non riusciranno a ridurre le emissioni, alla fine del secolo la neve sotto i 1000 metri sarà una rarità, inoltre la stagione per gli sport invernali si accorcerà di 15-30 giorni. Le stazioni sciistiche al di sotto dei 1.500 metri sono inesorabilmente condannate alla chiusura, e nei prossimi anni è difficile immaginare un futuro addirittura per quelle poste al di sotto dei 1.800 metri.
La prima risposta che verrebbe in mente è che basti pescare la soluzione tecnologica più appropriata per cercare di continuare a ignorare il rapido cambiamento climatico, ad esempio puntando tutto sui cannoni sparaneve e tentare di resistere, ma non sarebbe una scelta lungimirante: con la tecnologia convenzionale da un metro cubo d’acqua si producono circa due metri cubi di neve artificiale, a patto che la temperatura sia tra i -2 e i -12 gradi e con un tasso di umidità intorno al 20%. In tal caso è garantito l’innevamento artificiale che ha un costo indicativo per km di pista fino a 45.000 euro a stagione.
Alcune innovazioni tecnologiche rendono possibile produrre neve tra 0 e i +15 gradi. Una tecnologia che potrebbe avere applicazioni anche al di fuori delle piste da sci – per mantenere la catena del freddo nel settore alimentare, per esempio. La differenza di questa tecnologia rispetto ai cannoni è sostanziale, perché la neve è prodotta sottovuoto all’interno di una macchina e l’energia termica per la trasformazione può essere ricavata da fonti rinnovabili. E’ bastato questo per parlare di neve “green” e di sostenibilità ambientale. Si tratta di un’interpretazione distorta perché, ovviamente, non c’è nessuna invenzione tecnologica che permetta di conservare la neve artificiale a temperature sopra lo zero, e con il loro innalzamento un innevamento programmato sarebbe giustificabile solo oltre i 1800-2000 metri.
Alla luce di questi scenari è necessario influenzare le scelte programmatiche pensate per le montagne nei prossimi anni e condizionare i nuovi progetti perché recepiscano quanto sta succedendo a livello climatico. Sull’arco alpino i progetti di nuovi impianti sciistici più impattanti sull’ambiente e anacronistici, secondo il Dossier di Legambiente, sono il Collegamento Cime Bianche (Progetto di ampliamento dell’area sciistica nell’Alpe Devero), il Progetto Ortler Ronda (carosello nell’area sciistica di Solda nel Parco dello Stelvio) e il Collegamento Padola (Sesto Pusteria).
Sul fronte appenninico in Toscana è invece previsto il progetto di collegare le stazioni sciistiche del Corno alle Scale con gli impianti della Doganaccia, prossimo alla realizzazione. Il finanziamento europeo di venti milioni è transitato dalla presidenza del Consiglio. A questi la Regione Emilia Romagna ha aggiunto l’intenzione di stanziare per quest’anno 11,7 milioni, mentre la Toscana si appresta a stanziarne 8. Il tutto per unire il Corno e la citata Doganaccia con una funivia che dal versante toscano condurrebbe direttamente al lago Scaffaiolo (costo 7 milioni). Su quello emiliano, una seggiovia partirebbe dall’attuale rifugio della Tavola del Cardinale raggiungendo il lago. Il protocollo è stato siglato nel 2016 dalle Regioni Emilia-Romagna e Toscana con la presidenza del Consiglio dei ministri.
Pochi mesi prima l’Arpa dell’Emilia Romagna aveva certificato che nei tre Comuni emiliani coinvolti le temperature medie si sono innalzate di oltre 1 grado, Legambiente Emilia-Romagna ha definito il progetto “accanimento terapeutico”, il rilancio del circo bianco appenninico certificato da questo progetto non è frutto di analisi economiche e ambientali, ma figlio di una visione cieca e a breve termine.
Da un punto di vista ambientale è prioritario contestualizzare le aree interessate dal progetto dell’impianto che ricadrebbe in gran parte nel SIC/ZPS (Sito di Importanza Comunitaria e Zona di Protezione Speciale) Monte Cimone, Libro Aperto, Lago di Pratignano: al suo interno è vietata la realizzazione di nuovi impianti di risalita a fune e di nuove piste da sci, ad eccezione di quelli previsti negli strumenti di pianificazione territoriale vigenti alla data di approvazione delle presenti misure per quanto concerne i SIC ed alla data del 7 novembre 2006 – DGR n. 1435/06 – per quanto riguarda le ZPS ed i SIC-ZPS, ed a condizione che sia conseguita la positiva valutazione di incidenza dei singoli progetti ovvero degli strumenti di pianificazione, generali e di settore, territoriale ed urbanistica di riferimento dell’intervento.
E allora quale futuro per questa parte dell’appennino una volta abbandonato il progetto di rilancio del turismo sciistico?
La locale sezione del Club Alpino Italiano ha evidenziato come l’82% delle presenze turistiche sull’Appennino riguardino il “turismo verde”, quello estivo. C’è un turismo di altro tipo – spiega anche Legambiente – quello verde, del trekking, frequentato da camminatori in ogni stagione, in inverno con le racchette da neve e da scialpinisti, e che chiede paesaggi curati e bellezza non deturpata da nuovi impianti di risalita, borghi preziosi, offerta di servizi turistici a misura d’uomo.
È prioritario valorizzare l’Appennino toscano con un tipo di turismo sostenibile connesso alla natura la cui rarità è sempre di più stimolo alla sua preziosa condivisione e integrità, mantenendo i percorsi storico-culturali e agroalimentari.
La campagna pubblicitaria lanciata a fine 2018 dalla Regione Piemonte: All you need is snow, “tutto ciò che serve è la neve” è simbolo di ciò che è stato sfruttato ma che da adesso deve cambiare, soprattutto sulle aree appenniniche a vocazione verde.
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Tutte le foto sono gentile concessione di Enrico Buonincontro