By: Redazione
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Di Gianni Scotto*
La versione originale di questo pezzo è apparsa sulla Aspenia on line, curato dall’Aspen Institute Italia, che ringraziamo. Giovanni Scotto è professore di Sociologia all’università di Firenze, e membro del Comitato scientifico dei Verdi italiani. E’ tra i fondatori della Piccola scuola di pace “Gigi Ontanetti” a Firenze.
Nella prima settimana di settembre, l’osservatorio sull’atmosfera di Mauna Loa, alle Hawaii, ha misurato un concentrazione di CO2 di 408,80 parti per milione (ppm), con un aumento rispetto alla stessa settimana dell’anno precedente di 3,30 ppm. Questi numeri parlano di una realtà assolutamente allarmante: l’aumento della CO2 nell’aria segue un andamento esponenziale, ed è in netta accelerazione negli ultimi anni. Alla fine della guerra fredda la media decennale di aumento era intorno alle 1,5 ppm all’anno. Negli ultimi anni il valore annuale medio ha sfiorato o raggiunto le 3 ppm. A settembre è sembrata esserci un’accelerazione ulteriore.
Nel corso del 2019 la CO2 ha toccato un massimo stagionale di 415 ppm, e l’aumento medio delle temperature rispetto all’epoca pre-industriale è già di oltre 1°C. L’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, forum scientifico creato dall’ONU) lo scorso ottobre ha ammonito la comunità internazionale: è indispensabile rimanere sotto il grado e mezzo di aumento entro la fine del secolo, e per far questo bisogna dimezzare le emissioni entro il 2030, azzerarle per il 2050.
Troppo facilmente decisori politici e commentatori accantonano evidenze del mondo fisico. Giova rammentare che sappiamo dell’effetto serra dovuto alla CO2 nell’aria da oltre un secolo. Sappiamo che il sistema industriale emette questo ed altri gas climalteranti in misura significativa. Da oltre quarant’anni è chiara la possibilità del riscaldamento globale. Gli studiosi in modo pressoché unanime hanno individuato l’esistenza del problema, le cause e le sue gravissime implicazioni.
E’ alquanto surreale che 20 anni dopo ci sia ancora un dibattito sulla realtà del cambiamento climatico!
Il sistema internazionale ha provato a rispondere al problema del cambiamento climatico fin dal 1992, con la convenzione quadro di Rio, che detta tuttora le regole per la determinazione delle politiche globali per il clima. Il protocollo di Kyoto è del 1997 e indicava modesti obiettivi di riduzione rispetto al livello di emissioni del 1990, validi solo per i paesi industrializzati e peraltro in parte disattesi. Terminato nel 2012 il periodo di applicazione del protocollo, alla Conferenza di Parigi la comunità internazionale è passata a definire un obiettivo preciso – restare al di sotto dei 2 °C di aumento entro la fine del secolo – chiedendo agli stati impegni su base volontaria. Da parte loro, gli scienziati hanno valutato come insufficiente gli impegni formulati fino ad oggi.
La questione è che gli effetti del riscaldamento globale si stanno manifestando in diversi campi molto più rapidamente del previsto: dallo scioglimento dei ghiacci ai poli con conseguente aumento del livello dei mari, all’aumento di temperature, all’intensificarsi di eventi climatici estremi. L’estate del 2019 sarà anche ricordata per gli incendi che hanno devastato la Siberia, l’America Latina e l’Africa australe: a un tempo effetto e causa ulteriore del riscaldamento globale.
Gli Stati Uniti avevano identificato nel riscaldamento globale un problema di sicurezza già nella Strategia di Sicurezza Nazionale (NSS) del 1994: un quarto di secolo fa. Il cambiamento climatico è stato definito una “minaccia immediata e crescente alla sicurezza nazionale” nella più recente NSS del 2017. Questo riconoscimento sulla carta non ha però condotto a cambiamenti di policy rispetto alle emissioni di gas climalteranti. Nel nostro paese, il Libro bianco della Difesa del 2015 identificava il cambiamento climatico come uno di molti fattori di instabilità globale. Anche da noi, però, questa presa di consapevolezza è rimasta sulla carta.
Negli ultimi mesi, anche in risposta a una mobilitazione civica senza precedenti a livello praticamente globale (circa 150 Paesi), alcuni stati e autorità locali hanno prodotto delle Dichiarazioni di emergenza climatica. Si è trattato finora dell’espressione formale di un principio. Tuttavia dichiarare un’emergenza significa anche riconoscere alcune caratteristiche di fondo di ciò che accade: si tratta di una situazione nuova e eccezionale; questi fatti vanno compresi in termini di minaccia immediata al benessere, alla salute e alla sicurezza degli esseri umani di tutto il mondo, e delle comunità di cui fanno parte; alla nuova situazione è necessario dare una risposta straordinaria.
In altre parole, dichiarare l’emergenza climatica significa riconoscere e promuovere la securitizzazione del discorso sul riscaldamento globale. Se un tema entra a far parte della sfera di sicurezza, e viene compreso come un rischio evidente e immediato per i cittadini, è chiaro che la politica deve trovare risposte nuove su scala appropriata e di immediata applicazione.
Se le autorità di uno Stato – Parlamento, Governo – dichiarano lo stato di emergenza climatica, questo potrebbe rendere possibile adottare decisioni per la limitazione delle emissioni climalteranti – in campo economico, industriale, di politica dei trasporti etc – che non realizzabili possibili in regime di normalità ma potrebbero essere giustificati dalla securitizzazione del tema.
Gli Stati assumono regolarmente decisioni riguardanti la sicurezza nazionale seguendo norme e procedure diverse da quelle che regolano i casi normali; questo è in effetti un attributo fondamentale delle sovranità. La libertà di commercio può essere limitata, ad esempio vietando la vendita di asset strategici a investitori stranieri, o la diffusione di particolari tecnologie. Estendere la securitizzazione al problema del clima, prendendo decisioni eccezionali per la limitazione delle emissioni di CO2 sarebbe semplicemente un’estensione di un principio politico che gli stati riconoscono e utilizzano da sempre.
Un discorso simile può essere fatto per la determinazione delle politiche industriali. In questo caso non si tratterebbe di bypassare limiti normativi che si applicano a tempi normali, ma più semplicemente di cambiare i criteri per la scelta degli investimenti pubblici da compiere o gli obiettivi gestionali da perseguire. Provo a fare due esempi.
La tipologia e la qualità degli investimenti infrastrutturali andrebbe decisa non solo sulla base dei costi e benefici direttamente imputabili all’opera ma anche all’ammontare di emissioni dirette e indirette. E’ utile ricordare, riguardo a molte grandi opere, che la produzione di cemento è anch’essa una rilevante fonte di emissioni di CO2. Riorientare gli investimenti pubblici è condizione necessaria per l’urgentissima transizione di cui abbiamo bisogno.
Secondo esempio: tradizionalmente la produzione di idrocarburi viene considerata come un elemento strategico del sistema economico. Con la securitizzazione delle politiche di tutela del clima sarà opportuno considerare strategico anche l’ammontare delle emissioni imputabili agli idrocarburi estratti, considerando che 100 aziende sono responsabili per oltre il 70% delle emissioni di gas climalteranti.
Se, come dice l’IPCC, è imperativo per la sicurezza globale dimezzare le emissioni da qui al 2030, sarà necessario che le imprese di estrazione degli idrocarburi dimezzeranno la loro produzione per quella data. Come realizzare questo obiettivo mantenendo un equilibrio tra costi e ricavi, è una grande sfida tecnologica e di management. Molte aziende estrattive sono di proprietà pubblica: è così anche in Italia dove lo Stato è azionista di controllo. Per fare sul serio nella lotta ai cambiamenti climatici, lo Stato dovrebbe chiedere un piano di diminuzione controllata della produzione da qui al 2030, proprio perché la diminuzione delle emissioni è una vitale questione di interesse nazionale. Per mantenere l’Italia e il mondo nello stretto sentiero che può condurci a evitare il peggio.