Il prossimo 11 Marzo al cinema Odeon di Firenze verrà proiettato il film di Rudy Gnutti “In the same boat“, un film che parla di trasformazione del lavoro, di diseguaglianza e di sostenibilità. Abbiamo incontrato il regista e gli abbiamo fatto alcune domande sul suo film, che consigliamo a tutti di vedere.
Verdi Firenze: Nel tuo film ci sono due grandi temi: la sostituzione del lavoro dell’uomo con le prestazioni di computer e algoritmi, e la diseguaglianza. La paura delle macchine può ricordare il periodo in cui i luddisti sabotavano i telai meccanici duecento anni fa. Non pensi che la storia possa ripetersi e che l’innovazione tecnologica porterà in realtà benessere e maggiore equità? Cosa c’è di diverso questa volta?
Rudy Gnutti: Anche se non c’è un consenso unanime, molti ingegneri sostengono che oggi siamo capaci di sostituire quasi totalmente le attività umane produttive con la tecnologia. Ancora siamo agli inizi della quarta era tecnologica, ma se solamente applicassimo tutti i progressi tecnologici scoperti fino ad oggi alle varie attività produttive, faremmo un passo in avanti considerevole.
Credo che oggi, più che fare scommesse futuristiche, ci dovremmo porre una domanda più profonda, vogliamo o no, delegare quasi tutte le attività produttive alle macchine? Se la risposta è no, allora, dovremmo porre un freno alla quarta rivoluzione industriale. Se la risposta invece è un si, non ci rimane che adattare le regole economiche alla nuova realtà tecnologica. Zygmunt Bauman non era un esperto di questi temi, ma dopo averci riflettuto, ha coniato una delle frasi più importanti del film, “dobbiamo slegare il vincolo tra lavoro e sopravvivenza, perché il lavoro smetterà fra poco tempo di essere un meccanismo valido per distribuire la ricchezza”; io credo che in realtà abbia già smesso di esserlo.
Non credo che nessuno studioso sia convinto che realmente la storia si ripeta esattamente uguale a se stessa, al massimo si assomiglia.
VF: nel film fai parlare molte persone che sembrano riprese per caso, in strada, e che raccontano il loro rapporto con il lavoro. C’è qualcosa che hai imparato nelle ore di registrazione di queste conversazioni? qualcosa che non ti saresti aspettato e che magari ha influenzato la costruzione del documentario?
RG: Riconosco che quando ho girato le interviste alla gente comune, proveniente da diverse parti del mondo, non credevo realmente che potessero apportare un gran contributo al film, invece si è rivelato uno dei punti forti di questo lavoro. Noi, la gente comune, dobbiamo riflettere sul futuro che vogliamo e possiamo avere, tutte le imposizioni fatte a tavolino da soli esperti, finiscono normalmente in un dramma umano.
VF: Il documentario si conclude con un interrogativo di Bauman riguardo alla possibilità di governare i cambiamenti che ci stanno investendo “la questione non è come si debba fare, ma chi sia in grado di farlo”. Soprattutto in Europa ci troviamo a metà del guado, dieci anni fa avremmo sicuramente risposto che l’Europa e le organizzazioni sovrannazionali erano gli strumenti per dare risposte. Oggi ci sembra chiaro che molti, a questo interrogativo, risponderebbero che sono i singoli stati nazionali a dover riacquistare sovranità. Anche tu la pensi così?
RG: Molti esperti considerano che ci troviamo davanti ad un bivio, o proseguiremo e accellereremo il processo di globalizzazione, finendo di mettere in pratica accordi internazionali a 360 gradi. Accordi che abbraccino la politica fiscale, quella ambientale, l’emigrazione, le risorse energetiche ecc. Oppure faremo un passo indietro e ritorneremo alle vecchie politiche nazionali; credo che la seconda ipotesi possa rivelarsi molto pericolosa. Esistono però varie teorie che appoggiano una terza via di gestione politica: che ad accordi sempre più globali si accompagnino robuste politiche municipali, quindi più vicine al cittadino, riducendo il peso della gestione nazionale, che oggi sembra far acqua da tutte le parti.
VF: La nave che accompagna lo spettatore nella visione del film all’inizio rompe fieramente il ghiaccio e avanza nel mare gelato. Sembra simboleggiare la supremazia dell’uomo sulla natura. Ma alla fine del viaggio il ghiaccio si sfalda e comincia a crollare, svelando una nuova minaccia. I cambiamenti climatici. Eppure una parte dell’opinione pubblica, e noi ecologisti in particolare, vediamo nell’avvio di una transizione ecologica un’occasione di ritorno della centralità dell’uomo nel processo produttivo. Una volta tanto lavoro, innovazione tecnologica e equilibrio ecologico non sono in conflitto ma possono condurci verso un mondo migliore. Perché questa direzione di speranza e cambiamento non entra nel tuo film?
RN: Questo è il punto più complicato del film, spiegare in che maniera una distribuzione della ricchezza “tecnologica”, separata dal lavoro possa dare una possibilità a una “transizione ecologica”. Perché? perché se oggi iniziassimo una politica veramente rispettosa verso l’ambiente e togliessimo il piede dall’accelleratore produttivo, l’economia andrebbe in tilt, la disoccupazione crescerebbe drammaticamente. Il nostro sistema di ridistribuzione della ricchezza infatti riesce a funzionare solo nella misura in cui il sistema economico sperimenta una crescita continua e irresponsabile. A un certo punto del film Mauro Gallegati fa un esempio che mi sembra perfetto, quello di un criceto che corre nella ruota pensando di poter arrivare da qualche parte. La nostra ruota è il sistema di produzione che abbiamo creato. Quindi, credo, prima di togliere il piede da questo accelleratore, dobbiamo trasformare il meccanismo che regola il nostro sistema economico. Da un meccanismo basato solo sulla crescita dobbiamo approdare ad un sistema basato sulla redistribuzione. Questo soprattutto nella consapevolezza che, come sosteneva Keynes, saremo sempre più ricchi e sempre più capaci di produrre ricchezza utilizzando tecnologie sempre più rispettose dell’ambiente. Dobbiamo riformare il meccanismo economico che determina la maniera in cui produciamo e consumiamo.
Ho utilizzato la metafora del rompighiaccio per sottolineare che non controlliamo né la velocità né la direzione di questa nave che demolisce tutto quello che si trova davanti. Purtroppo, come diceva Mujica, tutte le volte che l’umanità si è trovata in un bivio come quello in cui ci troviamo oggi, la nave è andata contro un iceberg. Pensiamo ai 60 milioni di morti delle due guerra mondiali.
La speranza è che invece di credere alle teorie di una storia circolare che si ripete, riusciremo ad aprire la nostra mente e sforzarci di marcare una rotta ellittica, che anche se assomiglia ad un circolo, non commette gli stessi banali errori del passato.