Presi dall’entusiasmo per l’elezione di Sanna Marin in Finlandia abbiamo intervistato Jouni Kantola, giornalista fiorentino-finlandese e co-amministratore di Berta Film, un’azienda produttrice e distributrice di film documentari e fiction.
Verdi Firenze: In Italia ci facciamo spesso prendere da ubriacature di entusiasmo esterofilo, Zapatero, Hollande, Tsipras, che effetto ti fa vedere oggi tanto entusiasmo sulla stampa italiana riguardo alla nuova premier del tuo paese?
Jouni Kantola: L’entusiasmo riguardo al governo Finlandese, una coalizione dove i cinque partiti della maggioranza sono tutti guidati da donne, quattro delle quali sotto i 35 anni di età, è stato un entusiasmo mondiale, penso che l’Italia non potesse mancare all’appello. È importante però capire e riconoscere che non si tratta di una messinscena populista: la parità di genere in Finlandia viene da lontano. Nel 1906, Finlandia fu il secondo paese nel mondo dopo l’Australia a introdurre il suffragio alle donne. La generazione detta ‘millenials’, di cui fanno parte le quattro donne che attualmente guidano i partiti del governo finlandese, è cresciuta con la Presidente Tarja Halonen, che fu la prima donna a ricoprire questa carica dal 2000 al 2012. La parità di genere in Finalndia è nei fatti. C’è un conenso diffuso in Finlandia sul fatto che che Sanna Marin e le sue colleghe ministre occupino le loro cariche politiche non perché sono donne, ma perché sono le persone più qualificate che la nazione ha a disposizione al momento.
VF: Vuoi raccontarci qualcosa di Sanna Marin? Come è arrivata così giovane a fare la premier?
Sanna Marin è qualificata, tosta e intelligente. Ha una laurea in scienze dell’amministrazione e ha militato nei giovani del Partito Socialdemocratico Finlandese. Nel 2012 è stata eletta nel Consiglio comunale di Tampere, la terza città Finlandese. Come presidentessa del Consiglio comunale di Tampere dimostra le sue capacità di dirigere gruppi politici, talvolta molto discordanti, arrivando a risultati concreti e comprensibili per i cittadini. Alcune di queste sedute del Consiglio comunale, trasmesse live via internet, diventano virali e aumentano la sua visibilità nazionale. Membro del parlamento finlandese dal 2015 e ministro dei trasporti e delle telecomunicazioni della Finlandia dal 2019, aveva già ricoperto il ruolo di primo ministro durante la malattia del ex-presidente Antti Rinne. Nella vita privata è sposata con un figlio; è cresciuta come figlia di una coppia gay, ovvero due mamme. Nella sua infanzia ha subito una povertà insolita nel contesto Finlandese e di conseguenza ha una particolare attenzione riguardo a questioni di povertà. Sulla mappa politica destra-sinistra, Sanna Martin è sulla sinistra anche all’interno del suo stesso partito dei Socialdemocratici.
VF: Cosa ti aspetti che possa fare Sanna Marin, al di là del potere simbolico del suo successo, per migliorare la situazione della Finlandia?
JK: Lei deve governare e garantire che il programma di governo sia realizzato, è questo il suo mestiere. La sfida è notevole, perché un pezzo fondamentale del suo governo, il Partito di Centro Finlandese, è in contrapposizione con gli altri elementi della coalizione sulle politiche ambientali e sul mercato di lavoro. Inoltre, eredita una difficile situazione nel mercato di lavoro dal governo precedente di centrodestra, dove la parte dei lavoratori ha dovuto affrontare molti sacrifici. Il programma di governo c’è però, ed è firmato da tutta la coalizione. Lei può essere la garante di questo programma, dovrà riuscire a fare in modo che i voti dei cittadini alle elezioni di Aprile 2019 si traducano in atti.
VF: La Finlandia ambisce a emissioni nette zero di C02 entro il 2035, credi che l’impegno del nuovo governo sui temi ecologisti sia credibile?
JK: La Finlandia può sfruttare dei sink biosferici importanti grazie al suo patrimonio forestale che lo favorisce nel tentativo di emissioni nette zero, però per arrivare a tale scopo entro 2035, dovremmo vedere cambiamenti radicali subito e su tutti i settori chiave della società: industria, logistica e produzione del riscaldamento ed energia elettrica. Il cambiamento non è stato avviato ancora e perciò le dichiarazioni del governo al giorno di oggi non sono credibili. Detto questo, le elezioni erano ad Aprile 2019 e il termine del governo scade Aprile 2023. Il saldo totale di questa ambizione va visto al termine del mandato, ma è certamente urgente che questo governo passi all’azione.
VF: Pensi che il ruolo della donna sia così diverso nella società finlandese rispetto a quella Italiana? oltre a motivi culturali credi che ci sia qualcosa che le istituzioni potrebbero fare?
JK: L’occupazione femminile in Italia è intorno 50%, penultimo posto in Europa. In Finlandia l’occupazione femminile è intorno 70%, in crescita. Credo che ci sia l’imbarazzo della scelta fra le politiche che le istituzioni potrebbero mettere in atto per migliorare la parità di genere in questo paese, ma non sono esperto di questa materia. Certamente la gestione dei figli nella coppia e il sostegno reciproco che la società può garantire per entrambi i sessi per evitare emarginazione a causa della maternità è fondamentale. Le istituzioni però non esistono in astratto ma riflettono la cultura e valori del paese. Ecco perché non si scappa: in un contesto in cui la donna non è considerata degna di rappresentare il Dio o di partecipare alla massoneria, dove vogliamo andare? Non credo che sia un caso che uno dei fenomeni culturali più importanti di questo decennio – #metoo – ha avuto molta meno visibilità in Italia rispetto a tanti altri paesi dell’occidente. L’Italia è talmente “sottosviluppata” in materia di pari opportunità, che la gente non ha nemmeno capito le sfumature e l’importanza del messaggio #metoo. Si tratta di un contesto troppo distante da quel movimento, qua si sta ancora aspettando di conoscere le prime ortopediche e preti donna. In Finlandia i mezzi di comunicazione di massa sono passati alla lingua genere neutro e monitorano che nelle notizie si dia apparenza in pari misura per entrambi i sessi.
VF: Come italiani viviamo sempre il complesso di essere culturalmente arretrati rispetto ai paesi scandinavi. Tralasciando il cibo e il vino, c’è qualcosa in cui ti pare che il nostro paese riesca a fare meglio rispetto alla Finlandia?
JK: Io adoro l’Italia e ho scelto di vivere e far crescere i miei figli qua invece che in Finlandia. Credo che questa scelta abbia a che vedere con la qualità di vita, che non si riduce ai soli parametri di indicatori statistici. Italia e Grecia hanno contribuito alla cultura di questo continente in tale misura, che possono camminare testa alta ancora a lungo; nonostante le tante difficoltà che ci sono nel paese, bisogna ricordare che ci sono anche tanti centri di eccellenza, innovazione e creatività. Mi rattrista però vedere l’Italia sprecare le sue risorse – come donne, giovani, ricchezze naturali – grazie ai tanti corrotti, vecchi bunga bunga e l’illusione dell’ ‘uomo forte’. Stento a paragonare i due paesi tra di loro, perché le variabili sono troppe e si cade facilmente nella trappola dei luoghi comuni. Però posso dire che in Italia la rete ferroviaria è più avanzata che in Finlandia, dove alta velocità vera non esiste. Avete una cultura urbana squisita con delle città una più bella dell’altra a dimensione umana – grazie all’architettura dei secoli passati. Credo che nella robotica siate avanti e chiaramente nei tradizionali settori italiani come la moda e gastronomia. C’è poi una condivisione intergenerazionale bella in Italia, coi nonni onnipresenti. Noi Finlandesi siamo sparpagliati ovunque nel paese e come si lascia il nido materno all’età di diciott’anni, i legami familiari si rompono spesso troppo bruscamente.
VF: grazie mille Jouni per il tuo tempo!
Malgrado il Piano di Indirizzo Territoriale Toscano individui nell’area agricola attorno all’abitato di Bagno a Ripoli un’area da sottrarre all’urbanizzazione, i nuovi piani della giunta ripolese vanno in direzione opposta. Il centro sportivo della società viola è infatti solo uno degli interventi che prevedono consumo di suolo agricolo nel comune. Pubblichiamo la lettera aperta della Lista Per una Cittadinanza Attiva di Bagno a Ripoli alla proprietà della AC Fiorentina.
***
Presidente Commisso, ci auguriamo che la Fiorentina, nell’immediato futuro, non sia ricordata solo per il centro sportivo più grande e più bello del mondo, perché questo intervento, in una visione più ampia, potrebbe invece passare alla storia come l’inizio della fine del Piano di Ripoli.
Ricordiamo che tutta l’area del Pian di Ripoli ricade sotto numerosi vincoli statali paesaggistici,ma anche idraulici di vario genere, che devono garantire un’assoluta permeabilità del terreno: non a caso la vasta area in questione si chiama “il Padule”.
Ricordiamo che i terreni sono dei privati,ma il territorio è un bene di tutti, specialmente oggi che i mutamenti climatici ce lo ricordano sempre più frequentemente e drammaticamente.
Vorremmo spiegare a Lei,e soprattutto ricordare alla popolazione di Bagno a Ripoli,che oltre a questo Centro Sportivo sono programmati contemporaneamente altri numerosi interventi edilizi e urbanistici che, in breve, faranno del Piano di Ripoli una periferia asservita ai “desiderata” della città di Firenze.
Quello che era il pomaio, l’orto e il Giardino di Firenze, ne diventerà invece il campeggio, il deposito della Tramvia, i parcheggi per un traffico non solo di transito,ma anche di circolazione, che modificheranno completamente usi, costumi e vocazioni di questo territorio, aprendo le porte anche ad attività improprie a carattere di sfruttamento e di impermeabilizzazione del suolo.
La natura degli interventi e la totale occupazione degli spazi ancora liberi banalizzano questi valori storici e ambientali, avvicinandoli in prospettiva a quelli solo commerciali applicati ad altre periferie della piana a nord- ovest di Firenze.
La velocità, ovvero il suo Fast, Fast, non è sinonimo, qui da noi, di presto e bene.
Al Fast d’oltre Oceano contrapponiamo, purtroppo, il presto e fatto male che già conosciamo da interventi in atto anche nel nostro Comune, che non stiamo qui a richiamare.
Il Fast, preso a scusa,non ha permesso di entrare nel merito delle questioni che la complessità degli interventi richiedevano già come scelta più opportuna per il pian di Ripoli e il capoluogo.
Dal punto di vista politico-urbanistico-amministrativo l’incontro di giovedì 28 novembre rappresenta la prima volta in cui i Membri della competente Commissione Urbanistica consiliare, che vorranno essere presenti, apprendono le idee di q uest o prog et t o, non per pa rt ec ipazione alla dec isione, ma c ome r ac c ont o del g ià deciso.
Neppure il Consiglio comunale ha partecipato al processo di indirizzo sulla trasformazione del pian di Ripoli in una periferia di Firenze, mentre gli atti di vendita corrispondevano già a prezzi adeguati a questo futuro imposto o concordato nelle stanze del potere.
Per questo non cesseremo di confidare nell’unico organo rappresentato dalla Soprintendenza nella difesa dei Beni Culturali comuni, visto che la Regione ormai concede varianti in barba a tutti i vincoli e in deroga al Piano di Indirizzo Territoriale (cioè al Piano Paesaggistico), al quale il nuovo Piano strutturale di Bagno a Ripoli aveva già sostanzialmente aderito fin dal 2013-14.
La ringraziamo per l’ascolto, se ne avremo.
Lista per una Cittadinanza Attiva – Bagno a Ripoli
Italia Nostra Onlus
Legambiente – Circolo di Bagno a Ripoli
Il 29 Novembre le Nazioni Unite chiamano il mondo alla solidarietà con il popolo palestinese. Noi abbiamo intervistato Ilaria Masieri, fiorentina, per sette anni cooperante in Palestina oggi responsabile per i progetti in Libano e Palestina della ONG Terre des Hommes Italia.
Verdi Firenze: Ciao Ilaria, ci racconti come è nato il tuo rapporto con la Palestina?
Ilaria Masieri: Sono partita per la Palestina la prima volta nell’estate del 2009, ma la passione per la Palestina è nata molto prima. In parte deriva dalla mia famiglia, i miei genitori erano legati alla battaglia del popolo palestinese e in casa ne parlavamo molto; in parte è dovuta al fatto che all’epoca delle mie superiori era il momento degli accordi di Oslo, della prima Intifada, e quindi di Palestina si parlava molto ovunque. Mi sono appassionata alla questione palestinese e così, quando ho dovuto scegliere l’università, ho scelto di studiare arabo. Mi interessava soprattutto guardare alla storia del Mediterraneo da un’altra prospettiva. Una volta fatta quella scelta da lì la strada è stata tutta in discesa, con l’università, la scuola di cooperazione, e poi la partenza.
VF: Per quanto tempo hai vissuto nei territori e in cosa consisteva il tuo lavoro?
IM: Sono stata lì sette anni, partita come stagista dopo aver fatto un corso a Firenze che prevedeva un periodo di stage. Sono rimasta perché mi hanno offerto un contratto. In quei sette anni ho attraversato un po’ tutti i ruoli che si possono ricoprire in una ONG. Da stagista sono diventata coordinatrice, poi capo-progetto e infine responsabile della delegazione.
Da oltre dieci anni lavoro quasi ininterrottamente con “Terre des Hommes Italia”, che fa parte del movimento internazionale “Terre des Hommes” e si occupa della protezione dei diritti dell’infanzia. In particolare, in Palestina i nostri progetti – essenzialmente finanziati da donatori istituzionali e in piccola parte da donazioni private – si occupano di diritto all’istruzione, alla salute, al gioco e allo sviluppo naturale del bambino. Lavoriamo sia in Cisgiordania che a Gaza, e negli ultimi anni soprattutto a Gerusalemme Est.
VF: La questione palestinese è progressivamente scomparsa sui mezzi di comunicazione nel corso degli anni. Qual è secondo te il motivo?
IM: Sicuramente conta il fatto che in generale si tende a parlare delle crisi umanitarie solo nel momento di massima emergenza. Per questa ragione la questione palestinese, che ha una storia molto antica, fa meno notizia e ha meno presa sull’opinione pubblica in quanto percepita come irrisolvibile. Come se fosse ormai un problema intrinseco al contesto mediorientale, dove si intrecciano grandi interessi internazionali e che pur rimanendo una polveriera risulta una matassa di cui è difficile trovare il bandolo. Ultimamente si è dato spazio nei media alle decisioni del Governo statunitense di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme e di non considerare più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania, senza dare altrettanto spazio alle conseguenze di decisioni sulla popolazione palestinese, pertanto l’opinione pubblica può convenire che si tratti di decisioni legittime proprio perché è poco informata.
Infine esiste, e si vede anche in queste settimane nel dibattito pubblico italiano, una confusione sostanziale tra lo stato di Israele, la questione palestinese, l’occupazione della Palestina e il problema dell’antisemitismo. Per questo poi chiunque provi a prendere una posizione pubblica in favore della battaglia del popolo palestinese rischia di venir tacciato di antisemitismo. Questo sicuramente scoraggia.
VF: Qual è oggi la situazione nella striscia di Gaza e in Cisgiordania?
IM: La situazione attuale, purtroppo in costante peggioramento, è quella di una crisi protratta. Non si parla neanche più di emergenza, perché l’emergenza prevede che ci sia un momento di altissimo bisogno alternato a momenti di stabilità. E qui i momenti di stabilità dal punto di vista economico e sociale non esistono più. La situazione è in costante peggioramento, con momenti di gravissima crisi, che sono quelli in cui essenzialmente noi arriviamo. È una condizione che sicuramente nell’ultimo biennio è peggiorata, soprattutto a causa della politica estera degli Stati Uniti, in particolare delle dichiarazioni e dei gesti che si sono susseguiti da quando Trump è diventato presidente. Di fatto queste hanno dato via libera al governo israeliano su Gerusalemme, sulle alture del Golan e recentemente anche sulla valle del Giordano e sulla Cisgiordania tutta. Per questa ragione si assiste a una colonizzazione feroce e in costante aumento, nonché alla sistematizzazione e ormai istituzionalizzazione della violazione dei diritti della popolazione palestinese. Ci sono comunque delle aree dove la crisi è particolarmente acuta, in questo periodo (ma ormai da molti anni) la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est. Per ragioni molto diverse ma con conseguenze purtroppo simili.
VF: Se un ultimo momento di speranza si era avuto con i discorsi di Obama al Cairo, il tentativo fatto all’epoca è sicuramente fallito. Tu come te lo spieghi?
IM: Io ne do una lettura molto semplice, ovvero che il governo israeliano non ha interesse a cercare la pace con i palestinesi. Il mantenimento dello status quo, che ormai nessuno sa neanche dire da dove provenga (di sicuro non da Oslo (accordi firmati nel 1993-95), non da Camp David (colloqui di pace svolti nel 2000), non dalle posizioni pubbliche prese dall’Unione Europea o dagli Stati Uniti, bensì da una situazione di stallo politico), favorisce essenzialmente gli interessi israeliani.
Se Israeliani e Palestinesi si dovessero seriamente sedere a un tavolo delle trattative, Israele in quanto potenza occupante e di fatto vincitrice (è un dato di fatto se lo si guarda in termini di occupazione di territorio, economia, potere, conformazione interna della società e dello stato) dovrebbe affrontare tre grandi nodi irrisolti che la questione palestinese si porta dietro fin da Oslo. Questi sono essenzialmente il problema di Gerusalemme, delle colonie, e del diritto al rientro dei rifugiati palestinesi che vivono fuori dalla Palestina. Su queste cose Israele non ha alcun tipo di interesse a fare concessioni.
I Palestinesi della diaspora non entrano in Israele, e non c’è modo neanche da parte della comunità internazionale di forzare la mano al diritto di uno stato di non concedere visti d’ingresso sul proprio territorio a cittadini stranieri. Sulla questione di Gerusalemme, di fatto Israele la considera come propria capitale fin dal 1980, e ha ricevuto su questo un forte endorsement da parte di Trump. Anche se il suo discorso non ha appieno rispecchiato ciò che Israele avrebbe voluto, è stato un messaggio forte e di fatto Gerusalemme sta venendo colonizzata quotidianamente. Basti pensare che ormai a Gerusalemme Est ci sono trecentomila abitanti palestinesi e duecentomila coloni israeliani. La questione delle colonie è altrettanto impossibile da affrontare, ma senza affrontarla è impossibile pensare alla creazione di uno stato palestinese. È anche vero che non esiste un fronte comune palestinese, e non esiste alcuna forma di alleanza che possa farsi portavoce delle istanze palestinesi – come è stato in passato l’Egitto di Nasser o in minima parte l’Iraq di Saddam Hussein. Il mondo arabo è fortemente diviso al suo interno, proprio su interessi che riguardano il Medioriente.
VF: Le responsabilità del governo Israeliano e statunitense sono abbastanza chiare da quello che ci racconti. Ma pensi che ci siano anche responsabilità da parte di altri attori che possono essere disinteressati a una soluzione pacifica?
IM: Assolutamente sì, il disinteresse è direi la cifra generale, ed è sicuramente condiviso anche da tutto il mondo arabo. Vari attori sono interessati a mantenere l’equilibrio esistente nell’area. E poì c’è la grande responsabilità politica di Fath e Hamas, le divisioni interne alla leadership palestinese rendono quasi impossibile trovare delle istanze comuni.
VF: Tu pensi ci sia qualcosa che possiamo fare, partendo dall’Europa e dall’Italia per arrivare a livello comunitario o individuale? C’è qualcosa che si può fare per il popolo palestinese, oltre a condividere un post sui social?
IM: Io credo che si possa fare moltissimo. Per chi se lo può permettere credo valga davvero la pena andare a vedere con i propri occhi come stanno le cose, perché è una situazione in cui le ingiustizie e le violazioni dei diritti delle persone sono così evidenti da risvegliare immediatamente le nostre coscienze.
Poi ci sono moltissimi gesti che ognuno può fare. Innanzitutto, è importante informarsi e parlarne, partecipare a iniziative, cercare di fare attenzione nel nostro piccolo alle scelte quotidiane, come l’acquisto di prodotti o i messaggi che condividiamo. Questo vale anche per quanto riguarda i nostri ruoli professionali, e penso agli insegnanti, alle scuole, a chi ha accesso alla sfera politica.
Credo che l’Italia possa e debba fare tantissimo in quanto paese e in quanto membro dell’Unione Europea. Si tratta soprattutto di fare rispettare il diritto internazionale, perché non bisogna inventare niente affinché i palestinesi e le palestinesi, e in particolar modo bambini e bambine, vedano riconosciuti i propri diritti essenziali – a partire dal diritto alla vita, all’espressione, allo studio. È tutto già a disposizione: ci sono le convenzioni, i trattati, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU; ciò che serve è che il nostro governo, a partire dai governi locali, si prenda la responsabilità di fare rispettare queste convenzioni. Sono convinta che dal momento in cui si abdica al proprio dovere di far rispettare le leggi internazionali – anche se lontano da noi – ciò che stiamo dando via sono non solo i diritti altrui, ma anche i nostri.
Questo è valido anche da un punto di vista ambientale. Leggevo stamattina del gravissimo problema di smaltimento dei rifiuti all’interno della Striscia di Gaza. A Gaza non ci sono fognature, perché sono state bombardate, i materiali per ripararle non possono entrare in quanto soggetti a un possibile doppio uso (secondo le norme imposte da Israele potrebbero essere utilizzati per fabbricare armi), le tre discariche di Gaza sono piene e non è quindi possibile in nessun modo smaltirli o sistemarli in maniera razionale, e i rifiuti non possono uscire dalla Striscia di Gaza perché Israele non lo consente. Ecco, Gaza è sul Mar Mediterraneo e si parla di duemila tonnellate di rifiuti indifferenziati al giorno. Ci riguarda tutti, perché è l’altra sponda del Mediterraneo. Non è un viaggio lungo, né con la mente né fisicamente. Sono i nostri vicini di casa.
VF: Grazie Ilaria per il tuo tempo e buon lavoro.
***
La foto di copertina è gentile concessione di Alessio Romizzi.
Pubblichiamo l’appello promosso da Caterina Arciprete, Lucia Ferrone e Caterina Francesca Guidi a un anno dal rapimento di Siliva Romano.
“Amo piangere commuovendomi per emozioni forti, sia belle sia brutte, ma soprattutto amo reagire alle avversità.
Amo stringere i denti ed essere una testa più dura della durezza della vita. Amo con profonda gratitudine l’aver avuto l’opportunità di vivere»
Silvia Romano
Il prossimo 20 novembre 2019 ricorre 1 anno dal rapimento della 24enne cooperante italiana Silvia Costanza Romano, rapita mentre faceva volontariato con i bambini in un villaggio del Kenya con la Onlus italiana Africa Milele. Di Silvia non si hanno notizie certe da oltre 11 mesi. Negli ultimi mesi si sono alternate notizie ufficiali ed ufficiose sulle dinamiche del rapimento, ma l’unica verità è che è passato un anno e non sappiamo Silvia come sta, se sta bene, se è protetta, se è viva.
La politica italiana non sembra impegnarsi a sufficienza per la liberazione della cooperante milanese. Un silenzio assordante che vogliamo riempire con la nostra voce.
Ci stringiamo intorno alla famiglia di Silvia e chiediamo al Governo di mobilitarsi in tutti i modi possibili e di chiarire la situazione affinché non debba passare più un giorno senza Silvia.
Chiediamolo tutt* insieme
il 20 Novembre 2019 dalle ore 18.00 alle ore 19.00
Piazza dei Ciompi, Firenze
Per aderire al sit-it manda una mail a: unannosenzasilvia@gmail.com
Possono aderire singoli, associazioni, organizzazioni, università e partiti politici.
LISTA PROMOTRICI “Donne per Silvia”
Caterina Arciprete
Lucia Ferrone
Caterina Francesca Guidi
SOTTOSCRITTORI – ASSOCIAZIONI (in continuo aggiornamento)
Verdi Firenze
AGESCI, Firenze
Anelli Mancanti
Arci Firenze
Associazione Piazza della Vittoria
CNGEI, Firenze
Comitato Fermiamo la Guerra
Comitato Firenze Possibile “Piero Calamandrei”
Comitato Firenze Possibile “Arianuova”
COSPE
È viva, Toscana
Emergency Firenze
Europa Verde Toscana
Firenze Città Aperta
Gruppo consiliare in Sinistra Progetto Comune
Gruppo scout AGESCI Firenze 12
Libere Tutte
Associaçao Angolana Njinga Mbande
Nosotras
OXFAM
PD Metropolitano di Firenze
Piccola Scuola di Pace dell’Isolotto “Gigi Ontanetti”
Potere al Popolo – Firenze
Movimento Federalista Europeo, Firenze
Progetto Arcobaleno
Rete Antirazzista di Firenze
Rifondazione Comunista Firenze
Senso Comune Firenze
Società della Ragione
Sì Toscana a Sinistra
Sinistra Italiana Toscana
Sinistra per Lastra
Volt Firenze
SOTTOSCRITTORI (primi 30 aderenti in ordine alfabetico)
Jacopo Bencini
Alessandro Bezzi
Moreno Biagioni
Mario Biggeri
Ugo Biggeri
Antonella Bundu
Marcella Bresci
Sandra Carpi Lapi
Duccio Chiarini
Lorenzo Ci
Claudia Cultraro
Daniela Chironi
Nicoletta Dentico
Pape Diaw
Tommaso Fattori
Patrizia Faustin
Lorenzo Fiesoli
Chiara Gaspari
Vittorio Iervese
Andrés Lasso
Antonella Lamberti
Daniela Lastri
Paolo Maggi
Dmitrij Palagi
Luisa Petrucci
Antonella Pino
Francesca Rossetti
Serena Spinelli
Massimo Torelli
Donella Verdi
Di Gianni Scotto*
La versione originale di questo pezzo è apparsa sulla Aspenia on line, curato dall’Aspen Institute Italia, che ringraziamo. Giovanni Scotto è professore di Sociologia all’università di Firenze, e membro del Comitato scientifico dei Verdi italiani. E’ tra i fondatori della Piccola scuola di pace “Gigi Ontanetti” a Firenze.
Nella prima settimana di settembre, l’osservatorio sull’atmosfera di Mauna Loa, alle Hawaii, ha misurato un concentrazione di CO2 di 408,80 parti per milione (ppm), con un aumento rispetto alla stessa settimana dell’anno precedente di 3,30 ppm. Questi numeri parlano di una realtà assolutamente allarmante: l’aumento della CO2 nell’aria segue un andamento esponenziale, ed è in netta accelerazione negli ultimi anni. Alla fine della guerra fredda la media decennale di aumento era intorno alle 1,5 ppm all’anno. Negli ultimi anni il valore annuale medio ha sfiorato o raggiunto le 3 ppm. A settembre è sembrata esserci un’accelerazione ulteriore.
Nel corso del 2019 la CO2 ha toccato un massimo stagionale di 415 ppm, e l’aumento medio delle temperature rispetto all’epoca pre-industriale è già di oltre 1°C. L’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, forum scientifico creato dall’ONU) lo scorso ottobre ha ammonito la comunità internazionale: è indispensabile rimanere sotto il grado e mezzo di aumento entro la fine del secolo, e per far questo bisogna dimezzare le emissioni entro il 2030, azzerarle per il 2050.
Troppo facilmente decisori politici e commentatori accantonano evidenze del mondo fisico. Giova rammentare che sappiamo dell’effetto serra dovuto alla CO2 nell’aria da oltre un secolo. Sappiamo che il sistema industriale emette questo ed altri gas climalteranti in misura significativa. Da oltre quarant’anni è chiara la possibilità del riscaldamento globale. Gli studiosi in modo pressoché unanime hanno individuato l’esistenza del problema, le cause e le sue gravissime implicazioni.
E’ alquanto surreale che 20 anni dopo ci sia ancora un dibattito sulla realtà del cambiamento climatico!
Il sistema internazionale ha provato a rispondere al problema del cambiamento climatico fin dal 1992, con la convenzione quadro di Rio, che detta tuttora le regole per la determinazione delle politiche globali per il clima. Il protocollo di Kyoto è del 1997 e indicava modesti obiettivi di riduzione rispetto al livello di emissioni del 1990, validi solo per i paesi industrializzati e peraltro in parte disattesi. Terminato nel 2012 il periodo di applicazione del protocollo, alla Conferenza di Parigi la comunità internazionale è passata a definire un obiettivo preciso – restare al di sotto dei 2 °C di aumento entro la fine del secolo – chiedendo agli stati impegni su base volontaria. Da parte loro, gli scienziati hanno valutato come insufficiente gli impegni formulati fino ad oggi.
La questione è che gli effetti del riscaldamento globale si stanno manifestando in diversi campi molto più rapidamente del previsto: dallo scioglimento dei ghiacci ai poli con conseguente aumento del livello dei mari, all’aumento di temperature, all’intensificarsi di eventi climatici estremi. L’estate del 2019 sarà anche ricordata per gli incendi che hanno devastato la Siberia, l’America Latina e l’Africa australe: a un tempo effetto e causa ulteriore del riscaldamento globale.
Gli Stati Uniti avevano identificato nel riscaldamento globale un problema di sicurezza già nella Strategia di Sicurezza Nazionale (NSS) del 1994: un quarto di secolo fa. Il cambiamento climatico è stato definito una “minaccia immediata e crescente alla sicurezza nazionale” nella più recente NSS del 2017. Questo riconoscimento sulla carta non ha però condotto a cambiamenti di policy rispetto alle emissioni di gas climalteranti. Nel nostro paese, il Libro bianco della Difesa del 2015 identificava il cambiamento climatico come uno di molti fattori di instabilità globale. Anche da noi, però, questa presa di consapevolezza è rimasta sulla carta.
Negli ultimi mesi, anche in risposta a una mobilitazione civica senza precedenti a livello praticamente globale (circa 150 Paesi), alcuni stati e autorità locali hanno prodotto delle Dichiarazioni di emergenza climatica. Si è trattato finora dell’espressione formale di un principio. Tuttavia dichiarare un’emergenza significa anche riconoscere alcune caratteristiche di fondo di ciò che accade: si tratta di una situazione nuova e eccezionale; questi fatti vanno compresi in termini di minaccia immediata al benessere, alla salute e alla sicurezza degli esseri umani di tutto il mondo, e delle comunità di cui fanno parte; alla nuova situazione è necessario dare una risposta straordinaria.
In altre parole, dichiarare l’emergenza climatica significa riconoscere e promuovere la securitizzazione del discorso sul riscaldamento globale. Se un tema entra a far parte della sfera di sicurezza, e viene compreso come un rischio evidente e immediato per i cittadini, è chiaro che la politica deve trovare risposte nuove su scala appropriata e di immediata applicazione.
Se le autorità di uno Stato – Parlamento, Governo – dichiarano lo stato di emergenza climatica, questo potrebbe rendere possibile adottare decisioni per la limitazione delle emissioni climalteranti – in campo economico, industriale, di politica dei trasporti etc – che non realizzabili possibili in regime di normalità ma potrebbero essere giustificati dalla securitizzazione del tema.
Gli Stati assumono regolarmente decisioni riguardanti la sicurezza nazionale seguendo norme e procedure diverse da quelle che regolano i casi normali; questo è in effetti un attributo fondamentale delle sovranità. La libertà di commercio può essere limitata, ad esempio vietando la vendita di asset strategici a investitori stranieri, o la diffusione di particolari tecnologie. Estendere la securitizzazione al problema del clima, prendendo decisioni eccezionali per la limitazione delle emissioni di CO2 sarebbe semplicemente un’estensione di un principio politico che gli stati riconoscono e utilizzano da sempre.
Un discorso simile può essere fatto per la determinazione delle politiche industriali. In questo caso non si tratterebbe di bypassare limiti normativi che si applicano a tempi normali, ma più semplicemente di cambiare i criteri per la scelta degli investimenti pubblici da compiere o gli obiettivi gestionali da perseguire. Provo a fare due esempi.
La tipologia e la qualità degli investimenti infrastrutturali andrebbe decisa non solo sulla base dei costi e benefici direttamente imputabili all’opera ma anche all’ammontare di emissioni dirette e indirette. E’ utile ricordare, riguardo a molte grandi opere, che la produzione di cemento è anch’essa una rilevante fonte di emissioni di CO2. Riorientare gli investimenti pubblici è condizione necessaria per l’urgentissima transizione di cui abbiamo bisogno.
Secondo esempio: tradizionalmente la produzione di idrocarburi viene considerata come un elemento strategico del sistema economico. Con la securitizzazione delle politiche di tutela del clima sarà opportuno considerare strategico anche l’ammontare delle emissioni imputabili agli idrocarburi estratti, considerando che 100 aziende sono responsabili per oltre il 70% delle emissioni di gas climalteranti.
Se, come dice l’IPCC, è imperativo per la sicurezza globale dimezzare le emissioni da qui al 2030, sarà necessario che le imprese di estrazione degli idrocarburi dimezzeranno la loro produzione per quella data. Come realizzare questo obiettivo mantenendo un equilibrio tra costi e ricavi, è una grande sfida tecnologica e di management. Molte aziende estrattive sono di proprietà pubblica: è così anche in Italia dove lo Stato è azionista di controllo. Per fare sul serio nella lotta ai cambiamenti climatici, lo Stato dovrebbe chiedere un piano di diminuzione controllata della produzione da qui al 2030, proprio perché la diminuzione delle emissioni è una vitale questione di interesse nazionale. Per mantenere l’Italia e il mondo nello stretto sentiero che può condurci a evitare il peggio.
Giovanni Mantovani, ingegnere trasportista, ex consulente del Comune di Firenze per il sistema tranviario e responsabile del procedimento di realizzazione della tratta SMN-Scandicci della linea T1, ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune nostre domande sul sistema tramviario fiorentino.
Verdi Firenze: Entrambe le linee tramviarie attualmente in funzione sono un successo dal punto di vista del numero di utenti. Il rovescio della medaglia è però che i convogli sono sovraffollati nelle ore di punta, soprattutto per quanto riguarda la linea T1 da Scandicci verso la stazione SMN. Quali possono essere secondo lei le soluzioni a questa situazione?
Giovanni Mantovani: Mi consta che il sovraffollamento sia stato determinato, almeno in parte, dal successo del parcheggio di scambio di Villa Costanza e che questa causa verrà attenuata grazie all’utilizzo del parcheggio di scambio alla fermata Guidoni della T2 (che peraltro non ha ancora una grande capacità) in modo di principio analogo a quello di Villa Costanza. È comunque opportuno essere preparati a possibili incrementi di domanda della T1 (anche per effetto dell’ipotizzato prolungamento oltre Villa Costanza o dell’apporto di nuovo carico in arrivo a Porta al Prato con la T4).
Le soluzioni, ovvie, sono due: aumentare la frequenza o la capacità dei tram.
La prima soluzione pone problemi di interferenza tra T1 e T2 nella tratta comune (oggi in via Alamanni e piazza Stazione, con una fermata; in futuro fino a viale Strozzi, con tre fermate in tutto); sono però problemi risolvibili, fino a un certo punto, mediante la regolazione centralizzata. Non so se sia necessaria anche una revisione del rapporto economico tra Comune ed Esercente.
La seconda soluzione, certamente non di immediata attuazione, è fisicamente possibile, poiché le banchine di fermata sono lunghe 45 metri e possono quindi accogliere tram più lunghi di quelli attuali. Ricordo che in varie città europee è stato necessario e possibile, grazie alla struttura modulare, allungare tram già in esercizio mediante moduli aggiuntivi.
VF: L’attuale rete tramviaria ha una struttura radiale, con tutte le linee che convergono verso la stazione, con un sovraccarico del nodo di SMN, rimangono tuttora difficili i collegamenti di trasporto pubblico tra alcune zone senza dover obbligatoriamente passare dal centro. Esistono modifiche possibili che potrebbero migliorare il funzionamento della rete? Come vedrebbe la possibilità che alcuni tram bypassassero il centro percorrendo una direttrice viale Strozzi – viale Belfiore fino a Porta al Prato?
GM: Il nodo di SMN è un forte attrattore, anche perché è al bordo del centro storico, e quindi è necessario servirlo direttamente da più direttrici con linee forti. L’attuale struttura radiale, concentrata nel settore NW, avrà una favorevole evoluzione con la realizzazione delle tratte per Bagno a Ripoli e poi per Rovezzano. Purtroppo, pare che non si potrà realizzare un servizio diametrale e sarà necessario cambiare tram a Piazza Libertà, per evitare un’eccessiva sovrapposizione di linee su alcune tratte, ma ritengo che questo aspetto sia un aspetto da approfondire.
Un by-pass Viale Strozzi – Viale Fratelli Rosselli era presente nei progetti originali e ne resta traccia negli scambi, dismessi, all’angolo tra Viale Fratelli Rosselli e via Jacopo da Diacceto. Fu abbandonato in assenza di un valido modello di esercizio e su comprensibili pressioni di Scandicci, che voleva assicurato il collegamento diretto con gli accessi alla stazione SMN e al bordo del centro di Firenze. Potrebbe essere ripreso in considerazione, se venisse giustificato dalla definizione di un modello di esercizio che tenga conto rigorosamente dell’entità e della distribuzione della domanda, nonché della necessità di servire adeguatamente i principali attrattori.
Un’ipotesi di collegamento tranviario ancora più esterno è quello della linea T5 (utilizzante un nuovo tracciato ad andamento tangenziale tra Piazza Dalmazia e Via Foggini), prevista dal Piano strutturale. Anche il ruolo di questa linea andrebbe a mio parere riesaminato in un quadro generale del sistema tranviario.
VF: Questione tram e centro storico. Gli attuali progetti non prevedono più il passaggio del tram dal tracciato SMN-Cerretani-Martelli-Cavour-San Marco: quali sono le conseguenze di questa scelta secondo lei? Per quali motivi nel corso degli anni erano state accantonate anche le alternative di attraversamento del centro (sotterraneo o di superficie) da ovest a est?
GM: Ritengo che le conseguenze siano senz’altro negative, per due ragioni: si è perso il servizio diretto del centro e si è perso un secondo collegamento transitante per i due poli.
Devo dire ancora una volta che non c’è alcuna ragione trasportistica né urbanistica per la cancellazione voluta dalla nuova Amministrazione nel 2009. Anzi, la preservazione del carattere del centro, proteggendolo da involuzioni dovute al turismo e ad iniziative economicamente elitarie, richiede che sia ben servito dal trasporto pubblico. Il secondo collegamento avrebbe anche permesso, sulla tratta SMN – Libertà, di distribuire vantaggiosamente le linee su due itinerari. La ragione è stata meramente politica e, a mio avviso, non nella migliore accezione di questo termine.
Tra Piazza Stazione e Piazza Beccaria ci sono 2 km in linea d’aria e un tale spazio non può essere certamente coperto solo a piedi o con i bussini, tra l’altro con elevatissimo costo specifico di esercizio e con il disagio del cambio. Tra l’altro il tracciato definito nel 2002 non passa per il Duomo, come comunemente si dice, ma passa in Piazza San Giovanni, abbastanza lontano dal Battistero grazie a una breve tratta a binario semplice, per poi svoltare subito, prima del Duomo, in via Martelli. Attorno al Duomo passava un precedente tracciato, abbandonato avendo considerato gravi le difficoltà di inserimento nel tessuto viario.
E la pedonalizzazione non è ragione sufficiente: in Europa abbiamo molti esempi di valida e sicura convivenza tra tram e pedoni in strade interdette alla circolazione di altri veicoli.
Riguardo al sottoattraversamento del centro, penso che vi siano molte ragioni contrarie. Anzitutto il tessuto di edifici storici, senza un ampio corridoio libero, e le caratteristiche del sottosuolo obbligherebbero a un tracciato molto profondo, con fermate di complessa realizzazione e tali da dare tempi lunghi di accesso alle banchine dalla superficie. Inoltre, si tratterebbe di una realizzazione il cui costo non sarebbe giustificato dal limite di capacità imposto in superficie alla linea tranviaria (almeno per questo aspetto, diverso sarebbe stato pensare a una tratta sotterranea comune sulla quale convergessero, ai due lati, più bracci di superficie). Va anche considerato che ai capi della galleria vanno due rampe in trincea, squarci non facili da inserire in strade ai margini del centro, e che quindi la tratta sotterranea dovrebbe essere molto lunga.
VF: Spesso i contrari al passaggio in piazza Duomo hanno sottolineato che il Sirio è un tram di dimensioni notevoli. Il passaggio nel centro storico potrebbe essere reso meno impattante utilizzando convogli più corti?
GM: Il Sirio di Firenze è lungo 32 metri ed oggi le lunghezze tipiche dei tram sono tra i 30 e i 40 metri, necessarie sia a fini di sostenibilità economica, grazie alla riduzione del costo specifico per passeggero trasportato, sia di riduzione, a parità di capacità della linea, della frequenza dei passaggi. Infatti, una frequenza spinta non favorisce la regolarità e genera un impatto ambientale maggiore. Un tram da 35 metri che passa ogni 4 minuti dà meno fastidio visuale e minore riduzione della permeabilità trasversale, che un autobus da 18 metri che passa ogni 2 minuti. Quindi, l’uso di tram da 20-25 metri sarebbe possibile, ma darebbe luogo alle contropartite cui ho accennato.
VF: L’attuale progetto definitivo della linea 3.2 prevede un capolinea in viale Don Minzoni, non direttamente collegato al braccio proveniente da viale Lavagnini che ferma in Piazza della Libertà: come fare ad evitare questa rottura di carico per i passeggeri che provengono da Firenze sud diretti a SMN ma anche verso Careggi o l’aeroporto? [NDR Dalle nuove planimetrie di progetto presentate prima dell’uscita dell’intervista pare che il capolinea sia stato spostato da Viale Don Minzoni a Piazza della Libertà, più vicino ma comunque non coincidente con la fermata della Linea 2]
GM: È un problema cui ho accennato rispondendo alla seconda domanda. Posto che la T2 vada a Piazza San Marco, se non si accetta la sovrapposizione di tre linee sulla tratta Valfonda – Strozzi – Lavagnini, governandone al meglio le conseguenze, la soluzione sta solo nel ripristino del secondo collegamento Stazione – Libertà, attraverso il centro.
VF: Alcuni comitati cittadini hanno mostrato perplessità sulla realizzazione del un nuovo ponte che collegherà via Minghetti all’Albereta. È un’infrastruttura necessaria? Noi abbiamo sempre sostenuto il tram anche perché si basa su una logica semplice ed efficace: togliere spazio alle macchine creando un’alternativa all’uso dell’auto privata, costruire un altro ponte a quattro corsie non va contro questa logica?
GM: Non so dare una risposta netta, perché non ho dati. Osservo solo che in genere la creazione di un buon nuovo sistema di trasporto pubblico riduce il traffico automobilistico del 15-20% (la T1 è uno dei casi particolarmente fortunati). Poiché la sede esclusiva per il tram è fondamentale, basterebbe una coppia di corsie uniche per l’80% del traffico attuale?
VF: La linea 3.2 verso Firenze sud avrà il capolinea a Bagno a Ripoli. Cosa pensa della richiesta di prolungare la linea verso l’ospedale di Ponte a Niccheri?
GM: Anche per questa domanda non ho elementi per dare una risposta fondata. Mi pare che sarebbe necessario un prolungamento di circa 2 km. Occorre uno studio di prefattibilità, che analizzi il modo di realizzare il prolungamento e, stimata la domanda assegnabile, valuti se i costi di realizzazione ed esercizio possono essere giustificati (tenendo ovviamente conto anche dei possibili benefici sociali).
VF: Il sistema tramviario dovrebbe essere sempre più integrato con gli altri mezzi del trasporto pubblico locale: con i bus urbani ed extraurbani, ma anche con la rete ferroviaria presente sul territorio. Cosa manca a Firenze per poter implementare un vero Servizio Ferroviario Metropolitano a servizio della città e dei comuni circostanti?
GM: Manca un’offerta appropriata, basata su un cadenzamento adeguato, quindi su un’infrastruttura in grado di accettare piccoli intervalli tra i treni, sull’apertura di nuove fermate e sull’uso di materiale rotabile adatto ai servizi metropolitani. Mi pare che si stia in uno stato di attesa, legato ai tempi di liberazione dei binari di cintura per effetto della realizzazione della galleria dell’AV.
Non sarebbe male, nel frattempo, fare un rigoroso studio della domanda assegnabile a una rete SFM ottimale, integrata con tranvie e autolinee, per calibrare bene sia gli interventi sugli impianti sia i programmi di esercizio. Un aspetto importante è quello della differenziazione tra servizi metropolitani e servizi regionali, che pongono esigenze diverse, dei quali non è però facile una netta separazione.
È anche importante ridurre le duplicazioni tra autolinee, suburbane e extraurbane, e servizi ferroviari e puntare, dove non ci sono serie controindicazioni, ad autoservizi di adduzione alla ferrovia, a pettine.
Una strada sostenibile, trasparente e partecipata per tutelare il Franchi e il Campo di Marte.
L’area di Campo di Marte, con i suoi 37 ettari dedicati allo sport, è una delle aree sportive intra-urbane più grandi d’Europa. In questa cittadella sportiva l’Artemio Franchi è l’elemento principale per capacità, oltre 40mila spettatori, e fruizione. Lo stadio è dunque un elemento chiave della cittadella, del Quartiere 2, in cui è inserita, e di tutta l’area metropolitana fiorentina.
Da tempo come Federazione dei Verdi siamo impegnati per la valorizzazione di questo elemento urbanistico, che è stato messo in discussione da progetti, a nostro avviso sbagliati, come quello di un nuovo stadio nell’area Mercafir.
Il progetto di un nuovo stadio è sbagliato perché il contesto fiorentino non può sostener la presenza di due stadi senza che uno dei due resti sottoutilizzato e si degradi (la manutenzione del Franchi è stimata in un costo costo di circa un milione di euro all’anno). Per questo abbiamo voluto incontrare l’architetto Carlo Bandini dello studio BCB Progetti srl per approfondire il progetto che il suo studio ha presentato in conferenza stampa il 22 luglio, e poi reso nuovamente pubblico, dopo sostanziali modifiche, a fine settembre. Il progetto di restyling sul Franchi della BCB Progetti è molto interessante, ed è piaciuto sia a noi Verdi che al presidente del Quartiere 2 Michele Pierguidi.
Ad oggi, però, non ci risulta che abbia trovato l’interesse della Fiorentina né del Comune di Firenze, che al momento ha presentato alla Soprintendenza un unico progetto di restyling del Franchi, quello proveniente dallo studio dell’architetto Casamonti.
In un’intervista di fine settembre il soprintendente Pessina ha espresso la “massima apertura” sulla disponibilità a modificare il Franchi, ma ha fatto notare che l’unico progetto che gli è stato presentato va oltre un restyling, prevedendo la demolizione di circa il 30% dello stadio progettato da Pierluigi Nervi. Lo stesso Soprintendente ha fatto notare anche che le soluzioni esistono, sarebbe ad esempio possibile avvicinare le curve al campo, senza stravolgere la vecchia struttura.
Siamo convinti che per trovare la soluzione giusta la Soprintendenza non dovrebbe avere in mano un solo progetto ma sarebbe naturale che potesse valutarne molti. A questo scopo una soluzione naturale è quella di un bando internazionale sul Franchi.
Tra le proposte esistenti ci sembra che la proposta della BCB Progetti abbia degli importanti pregi e sarebbe quindi importante che venisse valutata dalla Soprintendenza. Alcuni punti importanti in questa proposta sono i seguenti:
Il Sindaco negli ultimi giorni ha dichiarato di dover accantonare l’opzione che prevede la ristruttrazione del Franchi a causa dell’impossibilità di abbattere le curve, ma il progetto dello studio BCB Progetti dimostra che un serio restyling è possibile anche senza abbatterle. Se la scelta di costruire un nuovo stadio dipende in realtà dalla preferenza della Fiorentina a costruire uno stadio su un terreno di proprietà o dall’assoluta volontà del Comune di costruirlo sull’area Mercafir, deve essere detto con chiarezza ai cittadini, senza far passare il messaggio che la Fiorentina non giocherà più a Campo di Marte per “colpa” della Soprintendenza.
Su un tema così cruciale per l’urbanistica futura della città, noi riteniamo che il Comune debba muoversi con massima trasparenza e attenzione alle criticità in gioco, cosa che fino ad oggi non abbiamo visto. A maggior ragione in un momento in cui il Quartiere 2 e il Comune sono su posizioni molto diverse, il dibattito politico deve essere aperto, non ci devono essere scelte preconfezionate. Siamo la città che ha visto nelle ultime aree edificabili, pensiamo a Castello e alla scuola marescialli, scelte sbagliate non partecipate, non trasparenti e impattanti. Non vogliamo che questo succeda ancora.
Vogliamo inoltre che un monumento come il Franchi non venga abbandonato ma sia ripensato e reso adeguato ai tempi. Questo non può essere fatto presentando alla Soprintendenza, alla quale bisogna riconoscere una grande apertura sul tema negli ultimi mesi, un solo progetto.
Serve un bando di respiro internazionale, serve un dibattito politico istituzionale al posto della politica dei tweet in cui si comunicano scelte già in corso. Serve insomma coinvolgimento, partecipazione, lungimiranza.
Foto: www.bcbprogetti.it/
Aderiamo alla manifestazione regionale indetta dal Coordinamento Toscana per il Kurdistan in solidarietà al popolo curdo assediato dall’esercito turco.
Ci uniamo alla richiesta di immediata sospensione dell’invasione in territorio siriano delle truppe di Ankara.
Sabato 19 Ottobre saremo presenti in piazza Santa Maria Novella dalle 15:00.
Dopo l’annuncio della Fiorentina abbiamo letto e sentito soltanto commenti entusiastici riguardo alla realizzazione del nuovo centro sportivo. Siamo molto contenti che la società Viola abbia intenzione di investire sul nostro territorio e auguriamo il meglio per l’avventura imprenditoriale di Commisso.
Il progetto, stando alle dichiarazioni della società, dovrebber prevedere una decina di campi sportivi, di cui due con tribune coperte, una piscina, una palestra, un campus, per un totale di 25 ettari dedicati a quello che dovrebbe diventare uno dei più grandi centri sportivi italiani.
I commentatori si sono concentrati sul valore sportivo dell’investimento. Ma nessuno parla del fatto che il progetto del nuovo centro sportivo della Fiorentina a Bagno a Ripoli andrà a cancellare una delle ultime aree rurali residue nella zona periurbana est di Firenze, un’area che mantiene ancora dal punto di vista storico e paesaggistico degli aspetti caratteristici della pianura agricola perifluviale con mosaici di coltivi ed incolti, siepi e boschetti, ville storiche, aspetti ormai quasi del tutto scomparsi nella periferia fiorentina a causa dei rapidi processi di consumo di suolo e di “valorizzazione del territorio”.
Non a caso il Piano di Indirizzo Territoriale della Toscana (PIT) individua quest’area come un importante elemento ecologico essendo una delle poche area agricola di pianura rimaste nella zona. Per questo il PIT la identifica come area critica da conservare, bene paesaggistico vincolato, ma soprattutto una delle ultime aree di pianura ove il mantenimento di una continuità ecologica tra il paesaggio collinare, la pianura e il fiume Arno costituisce un elemento di grande valore paesaggistico.
Se si esamina la Scheda di ambito relativa a Firenze – Prato – Pistoia e in particolare la sua parte conclusiva, intitolata ‘Indirizzi per le politiche‘, si trova un riferimento specifico a quest’area, laddove, al punto 39, viene inserito fra gli obiettivi di ambito:
“nella pianura orientale di Firenze garantire il mantenimento delle residuali zone agricole di Rovezzano e di Pian di Ripoli, ostacolando i processi di urbanizzazione e mantenendo e riqualificando i varchi di collegamento tra le pianure agricole e le colline.”
Da questi dati si evince chiaramente come queste aree debbano essere tutelate perché svolgono delle funzioni importanti per garantire la qualità dell’ambiente in cui viviamo.
Se si vuole investire sul territorio e garantire alla Fiorentina la squadra che merita di essere, ciò non può avvenire in deroga a quelli che sono i vincoli che la situazione odierna ci impone. Non si tratta di “essere contro”, ma di “essere per” nel rispetto di quelle condizioni che oggi non sono più rimandabili.
Contrariamente a quanto riportato da alcuni giornali, non si tratta di una zona a rischio degrado da “riqualificare”, bensì di un territorio rurale in grado di fornire importanti “servizi” alla città, alle sue comunità e alle sue attività economiche. Si pensi alla mitigazione dei cambiamenti climatici, alla qualità di un paesaggio a fini turistici, alla mitigazione del rischio idraulico, e alla qualità dell’aria e della vita dei cittadini.
Negli ultimi mesi assistiamo ad amministratori e imprenditori sempre più predisposti, a parole, a ridurre l’impatto delle nostre città e a favorire soluzioni che non prevedono consumo di suolo. Nei fatti però un approccio ecologista allo sviluppo delle città sembra ancora molto lontano. Anche nel caso del centro sportivo della fiorentina è difficile capire perché non si possano trovare soluzioni per un progetto di questo tipo, soluzioni che vadano davvero a ripristinare aree già artificializzate del comprensorio fiorentino, o a meglio utilizzare aree già destinate a tale funzioni piuttosto che andare ad urbanizzare e cementificare aree verdi residue. L’area di Bagno a Ripoli appare anche abbastanza incomprensibile nel momento in cui la società viola sembra orientata a costruire un nuovo stadio in una zona a nord ovest della Città metropolitana di Firenze.
Siamo in un periodo di grandi cambiamenti climatici e di enormi problemi ambientali, che incidono direttamente sulla qualità della vita dei cittadini, soprattutto nelle città, dove occorre invertire l’approccio ai problemi: ogni residuale area rurale attorno alle città non deve essere considerata come terreno di conquista per nuove infrastrutture ma come bene comune da preservare individuando soluzioni nuove nel migliore utilizzo delle aree già trasformate e urbanizzate.
Chiediamo al Comune di Bagno a Ripoli di invertire la rotta e non approvare varianti al Piano Strutturale che andrebbero a cancellare dei valori del territorio che non torneranno mai più.
Chiediamo nello stesso tempo alla Regione e alla Soprintendenza di perseguire gli importanti obiettivi individuati in questa direzione dal PIT e dalla stessa normativa urbanistica regionale, opponendosi ad un ulteriore consumo di suolo nelle periferie delle nostre città, e in particolare alla trasformazione di 25 ettari di territorio rurale come previsto per il nuovo centro sportivo a Bagno a Ripoli.
Nello stesso tempo chiediamo a tutti i Comuni dell’area metropolitana fiorentina di individuare aree più idonee ad un progetto di centro sportivo della Fiorentina, che non vogliamo che sia cancellato bensì localizzato in luogo più adeguato.
Quella dei Verdi è forse una voce fuori dal coro, ma riteniamo che la voce ‘stonata’ sia non la nostra ma quella di chi dichiara una cosa (consumo zero del territorio) e poi ne fa un’altra.
Potete ascoltare l’audio del nostro intervento radiofonico riguardo al centro sportivo registrato e gentilmente concesso da Radio Toscana.
Ci vuole forza per cambiare davvero un sistema che sta andando al collasso.
Un sistema che ciecamente continua a considerare i danni ambientali e sociali provocati come aspetti collaterali necessari.
Questa forza arriva, prepotente, dai ragazzi di Friday For Future con il Report della loro Assemblea Nazionale.
Noi lo accogliamo e condividiamo, consapevoli che abbiamo la responsabilità di rispondere al loro appello per portare avanti una proposta nuova, radicale, ecologista, orientata alla giustizia sociale.
Report della seconda assemblea nazionale FFF Italia, Napoli, 05.10.2019
Il movimento Fridays For Future Italia, rappresentato nella seconda assemblea a Napoli da oltre 80 assemblee locali, ha condiviso queste posizioni per rilanciare la lotta per la giustizia climatica.
Per noi la giustizia climatica è la necessità che a pagare il prezzo della riconversione ecologica e sistemica sia chi fino ad oggi ha speculato sull’inquinamento della terra, sulle devastazioni ambientali, causando l’accelerazione del cambiamento climatico. I costi della riconversione non devono ricadere sui popoli che abitano nei Paesi del Sud del mondo. Siamo solidali con i e le migranti e con tutti i popoli indigeni. Siamo i/le giovani, e non solo, contro gli attuali potenti della terra, contro le multinazionali e contro chi detiene il potere economico e politico che non stanno facendo nulla in proposito. La giustizia climatica è per noi strettamente connessa alla giustizia sociale, la transizione ecologica dev’essere quindi accompagnata dalla redistribuzione delle ricchezze, vogliamo un mondo in cui i ricchi siano meno ricchi e i poveri meno poveri. Cambiare sistema e non il clima non è per noi uno slogan. Il cambio di sistema economico e di sviluppo è per noi un tema centrale e necessariamente connesso alla transizione verso un modello ecologico.
Cambiare il sistema vuol dire anche non analizzare la questione ecologica come questione settoriale, ma riconoscere le forti connessioni che esistono con le lotte transfemministe, antirazziste e sociali legate ai temi del lavoro, della sanità e dell’istruzione e metterle in connessione. I criteri che chiediamo di rispettare a livello globale riguardo la parità di genere sono assunti anche nelle pratiche e nelle metodologie del nostro movimento. L’intersezionalità è una modalità di lettura che permette di leggere in termini analitici la società sistematizzando le diverse lotte e la molteplicità di oppressioni che caratterizzano il nostro sistema patriarcale, sessista, razzista, colonialista, machista e basato sulla logica dell’accumulazione e del profitto. Le nostre rivendicazioni come studenti/esse si devono porre l’obiettivo di entrare in sintonia, e non in contraddizione, con i bisogni di lavoratrici e lavoratori, delle abitanti e degli abitanti delle nostre città, delle nostre province e di tutti i nostri territori. Ci lasciamo con la volontà di approfondire relazioni con la comunità scientifica, essendo consapevoli che i dati sono scientifici, ma le scelte sono politiche. Dobbiamo essere in grado di ripensare il sistema, nella sua totalità, senza lasciare indietro nessuna persona. La nostra casa è in fiamme, e noi stiamo spegnendo l’incendio consapevoli che una volta spento l’incendio la casa non potrà essere più la stessa.
Vogliamo una casa che metta al centro il processo democratico e partecipativo ribaltando le logiche di potere che caratterizzano il nostro sistema.
Non vogliamo più sussidi sui combustibili fossili, vogliamo una tassazione che colpisca i profitti della produzione e non solo il consumo. Pretendiamo l’obiettivo emissioni zero entro il 2030 per l’Italia.
Vogliamo la decarbonizzazione totale entro il 2025 passando alla produzione energetica totalmente rinnovabile e organizzata democraticamente con le realtà territoriali. Siamo fermamente contrari a ogni infrastruttura legata ai combustibili fossili, come il metanodotto in Sardegna, la TAP. Chiediamo la dismissione nei tempi più rapidi possibili di ogni impianto inquinante attualmente operativo, come l’ILVA. Tutte le fonti inquinanti devono essere chiuse attivando tutte quelle bonifiche, sotto controllo popolare e pagate da chi fino ad oggi ha inquinato. Il nostro futuro è più importante del PIL. Le aziende inquinanti devono chiudere, ma devono essere garantiti posti di lavoro e tutele a tutte quelle persone coinvolte nella transizione. Non accettiamo il ricatto tra lavoro, salute e tutela dell’ambiente.
Vogliamo un investimento nazionale su un trasporto pubblico sostenibile, accessibile a tutti e di qualità. Vogliamo dei trasporti a emissioni zero e necessariamente gratuiti. Un trasporto nazionale e territoriale che rispecchia i bisogni dei più, organizzato e pianificato secondo un processo di coinvolgimento democratico di tutte le abitanti e di tutti gli abitanti.
Vogliamo un cambio di rotta sostanziale per quanto riguarda il sistema d’istruzione e il mondo della ricerca. Esigiamo un ripensamento della didattica in ottica ecologista e che si investa sulla ricerca riconoscendo il valore dei saperi nei processi trasformativi della realtà. Riconosciamo la centralità di scuole e università nel processo di cambio di sistema per il quale stiamo lottando. Non vogliamo che il MIUR faccia operazioni di greenwashing, ma che sospenda immediatamente ogni accordo con le multinazionali e con le aziende inquinanti.
Ci dichiariamo contrari a ogni grande opera inutile e dannosa, intesa come infrastruttura, industria e progetto che devasta ambientalmente, economicamente e politicamente i territori senza coinvolgere gli abitanti nella propria autodeterminazione. Sosteniamo ogni battaglia territoriale portata avanti dai tanti comitati locali, come No-TAV per Val di Susa, No-Grandi navi per Venezia, no Muos per Catania e Siracusa, no TAP per Lecce e Stopbiocidio per Napoli e la terra dei fuochi, Bagnoli Libera contro il commissariamento, la lotta all’Enel per Civitavecchia, la Snam per l’Abruzzo, il Terzo Valico per Alessandria. Rifiutiamo ogni speculazione sullo smaltimento dei rifiuti, sul consumo del suolo e quelle infrastrutture che causano dissesto idrogeologico. Pretendiamo che l’unica grande opera da portare avanti sia la bonifica e la messa in sicurezza dei territori.
Non possiamo inoltre ignorare che l’agricoltura industriale svolga un grande ruolo nei cambiamenti climatici, nella devastazione ambientale e nello sfruttamento delle persone: le monocolture e anche l’allevamento intensivo sono modelli del tutto insostenibili che vanno fermate nel più breve tempo possibile.
Vogliamo che venga dichiarata l’emergenza climatica ed ecologica nazionale, consapevoli che non può essere solamente un’opera di greenwashing della politica.La dichiarazione di emergenza climatica dev’essere fin da subito uno strumento trasformativo del presente. Un passo che da forza al nostro movimento, senza però mai dimenticare che la vera alternativa è quella che tutti i giorni pratichiamo nei nostri territori e quella che narriamo nelle nostre iniziative. Dobbiamo rendere complementari le pratiche di autogestione ecologista con le forti richieste che facciamo alla politica. Non siamo disposti a scendere a compromessi, non vogliamo contrattare, vogliamo l’attuazione di ogni nostra rivendicazione per garantirci un futuro, ma siamo consapevoli che lo vogliamo ora, nel presente perché non c’è più tempo.
Fridays For Future è un movimento orizzontale, inclusivo e democratico. Ripudiamo il fascismo in quanto ideologia antidemocratica e violenta. Rivendichiamo l’autonomia e sovranità delle assemblee locali, in quanto linfa vitale del nostro movimento e di cui le assemblee locali sono gli spazi decisionali. Crediamo infatti che la forma assembleare garantisca un modello decisionale partecipativo, aperto e orizzontale. Dalle assemblee locali infatti devono emergere le esigenze di mobilitazione, di organizzazione e di approfondimento.
L’altro spazio decisionale collettivamente riconosciuto è l’assemblea nazionale, riconosciuto come spazio decisionale dove prendere decisioni specifiche di interesse nazionale e che serva per dare le linee guida da seguire.
Lanciamo il quarto sciopero globale per il 29 novembre, proponendolo a livello internazionale sotto lo slogan “block the planet”. Quella giornata di mobilitazione ci permetterà di sperimentare le tante pratiche discusse in questi giorni, come le pratiche di blocco e di disobbedienza civile caratterizzate dalla partecipazione pacifica e di massa.
Sosteniamo e saremo presenti alle mobilitazioni che lanceranno le realtà locali a Napoli a dicembre in concomitanza con la Cop Mediterranea, incontro interministeriale sul tema dei cambiamenti climatici dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Usciamo da questa assemblea nazionale con la consapevolezza di essere in grado, insieme, di cambiare il sistema. Non siamo disposti ad arrenderci, noi siamo la resistenza.